Potere e impotenza
La guerra che Hamas ha mosso contro Israele nasce dalla debolezza sempre più marcata che il movimento fondamentalista misura su se stesso, sulle sue prospettive di tenuta, sul suo futuro. Anche per questa ragione, essendo intesa come un’aggressione senza requie né vincoli che non siano quelli della propria sopravvivenza politica, è destinata a durare nel tempo, qualora non dovessero intervenire fattori esterni di cambiamento radicale degli indirizzi intrapresi. Per gli islamisti sarebbe stato preferibile un conflitto di logoramento, basato sul lancio “occasionale” e calcolato di missili, evitando forse di tirare troppo la corda. Ma le cose sono andate diversamente, e non certo per l’assassinio di tre ragazzi israeliani e di uno palestinese. Così, nel volgere di poche ore, tutto è precipitato. Segnatamente, se un’azione da terra si imporrà al governo di Gerusalemme, i costi politici, diplomatici e umani saranno molto alti, non essendo per nulla detto che essa possa, alla fine, risultare in qualche modo risolutiva. Perché il vero problema è di capire in che cosa consista una soluzione praticabile e non estemporanea. Peraltro, repentini e violenti mutamenti che stanno caratterizzando l’intera area mediorientale, riflettendosi più o meno direttamente sul Mediterraneo, hanno origine dal progressivo logoramento dei vecchi equilibri che per decenni hanno retto le sorti dei paesi arabi e musulmani. Hamas ha perso il sostegno diretto di Bashar al-Assad, impegnato a cercare di limitare gli effetti della guerra civile interna al suo paese e all’Iraq, così come deve confrontarsi con un governo, quello egiziano patrocinato dal presidente al-Sisi, che è assai più tiepido di quello dei Fratelli musulmani, già cassati politicamente e messi alle corde dall’ennesima svolta interna, più o meno forzata e quindi autoritaria, di un anno fa. L’accordo stipulato con Fatah e l’Autorità nazionale palestinese, che aveva dato vita ad un asfittico governo di transizione, si sta rivelando per quello che molti hanno pensato da subito fosse, ossia nulla di più di uno dei tanti tentativi abortiti di fare un passo in avanti verso una non meta. Di fatto le popolazioni palestinesi dei Territori contesi sono abbandonate a sé, avendo a che fare vuoi con élite patrimonialiste, quali quelle cisgiordane, vuoi con un gruppo di fondamentalisti senza fondamento, che sente la terra franargli sotto i piedi. Per questa ragione il surplus di violenze è così pronunciato, ripetuto, ossessivo e persistente. Hamas, plausibilmente, punta a ripristinare in qualche modo lo status quo che le “primavere arabe” hanno invece alterato in tutta la regione. Da esse, infatti, non ha tratto alcun giovamento, vedendo semmai mutare interlocutori e sostenitori, messi in difficoltà dai rivolgimenti interni ai loro paesi. Il concetto stesso di Medio Oriente, come sistema integrato di Stati, è in via di dissoluzione. Malgrado lo zampino sistematico dei sauditi, che sono intervenuti un po’ ovunque per puntellare e sostenere i movimenti conservatori e “controrivoluzionari”, la consunzione delle leadership e delle rappresentanze politiche è un fatto tanto diffuso quanto drammatico. E che si riflette da subito sugli Stati nazionali arabi, le cui sovranità è giurisdizioni sono in caduta libera. Hamas si trova accerchiata al suo stesso interno, in parte vittima del mutamento di scenario regionale ma anche e soprattutto dell’incapacità di andare oltre i deliri delle false promesse. Una posizione ideologica che continui a fingere (di ciò si tratta, essendo nei fatti irrealizzabile perché intraducibile in gesti concreti che non siano il terrorismo) la distruzione dell’ “entità sionista” come precondizione per un futuro libero dai vincoli del bisogno, promettendo alla popolazione palestinese l’impossibile, dopo quasi tre decenni di predicazione si sta rivoltando contro coloro che la professano come verità di fede. Una regola aurea della politica di movimento prescrive che si sappia cambiare costantemente il tavolo del confronto, obbligando l’avversario a giocare sul proprio campo. Ad Hamas, dopo alcuni lustri – per così dire – di successo, oggi, in un gioco di specchi ritorna, come immagine deformata, la concorrenza delle fazioni più radicali, che la superano, a destra come a sinistra, nella rappresentanza della “concorrenza politica” contro Israele. In palio non ci sono posizioni ideali ma rendite di posizione, adesso messe in discussione dagli appetiti e dall’ingordigia di molti clan e gruppi d’interesse. Poiché la politica è (anche) movimentazione, e Hamas non può non sapere che le promesse irrealizzabili si ritorcono contro i pifferai di turno. La mancanza di un progetto politico che propendesse verso la stabilizzazione dell’area palestinese, sostituito dalla retorica sfiancante della militanza antisionista e antisemitica, sta dando i suoi frutti avvelenati. In campo palestinese, prima di tutto. Altro discorso, a latere di questo, è ciò che rimanda alla guerra mediatica, che dagli anni Settanta in poi, con l’acme della vicenda libanese del 1982, è divenuto conflitto a sé stante. Qui le cose stanno diversamente perché Israele sconta un handicap strutturale, derivantegli dal vedersi assegnata una parte, quella della responsabilità morale, che viene fatta recitare a prescindere. Perché quello che mai ad Hamas potrà arridere, la vittoria sul campo, è diversamente declinato sul piano dell’immaginario pubblico. Sottovalutare questo secondo confronto, basato sulla guerra dei simboli e rubricato sotto la locuzione dell’”emergenza umanitaria” (intendendo in tal modo che ogni gesto della controparte israeliana sarebbe segnato da una disumanità di fondo, costitutiva della radice e della personalità stessa dello Stato ebraico), vorrebbe dire non avere compreso che le guerre si articolano sempre su due piani, quello dei proiettili ma anche quello delle parole.
Claudio Vercelli
(13 luglio 2014)