…Israele

Traduco da un ebraico abbastanza approssimativo l’sms (evidentemente collettivo) che ho ricevuto sul mio cellulare dalle Brigate az-Eddin a-Kassam: “To Israilis: Al pubblico israeliano… Il vostro governo ha sostenuto ieri di aver cessato il fuoco, ma senza accettare ed eseguire le nostre condizioni, e ha pensato che noi ci affretteremo a cessare il fuoco, ma al contrario noi ci siamo affrettati a colpire in ogni luogo in Israele da Dimona a Haifa, e vi abbiamo costretti a nascondervi nei rifugi come topi… Noi vi avvertiamo nuovamente, se il vostro governo non accetterà tutte le nostre condizioni, l’intera Israele resterà bersaglio legale del nostro fuoco”. Come siano arrivati a me non è chiaro, forse è perché percorro spesso la strada statale 443 Gerusalemme-Lod che per alcuni km attraversa il territorio dell’Autorità palestinese facendo catturare il mio telefonino dalle loro antenne. Il primo istinto sarebbe di rispondere: “To Balistinians: non ci fate paura… Cerchiamo invece della guerra di fare la pace”. Ma più seriamente, questa è la prova che oramai le guerre si combattono su tre fronti: quello militare, quello politico, e quello mediatico. Sul piano militare, la schiacciante vittoria di Israele e la disfatta di Hamas non richiedono molti commenti. È fallito l’obiettivo strategico di Hamas di uccidere centinaia o migliaia di civili israeliani, e di mettere in fuga il nemico sionista. La batteria anti-missile Cupola di Ferro riesce a intercettare circa il 90% dei razzi di produzione palestinese, siriana, iraniana e cinese mirati su obiettivi sensibili (quelli destinati a cadere su spazi aperti vengono lasciati cadere senza essere intercettati). Per tutti coloro che possono attenersi alle istruzioni di sicurezza di entrare immediatamente nello spazio protetto al momento della sirena d’allarme, non vi sono praticamente rischi. I contrattacchi di Israele distruggono centinaia di obiettivi militari e di abitazioni dei dirigenti del movimento. Hamas non ha investito una lira nella difesa della propria popolazione e così, incresciosamente, si creano anche danni collaterali alla popolazione civile. Israele farebbe bene a proporre come propria iniziativa umanitaria la disponibilità a curare nei propri ospedali i feriti civili di parte palestinese, soprattutto i minorenni (non combattenti). Sul piano politico, è apprezzabile e va incoraggiata la scelta di Benyamin Netanyahu di temporeggiare con l’iniziativa di una possibile invasione terrestre di Gaza che potrebbe tradursi in una trappola e in uno stillicidio di vite senza fine. I tempi lunghi si addicono bene a Israele, non meno che agli organi militari di Hamas. La campagna in corso svela anche come manifestamente irrealizzabile l’idea di un unico stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania collegate da un immaginario corridoio sicuro, e rilancia l’idea di due stati autonomi e separati, uno a Gaza, l’altro in Cisgiordania, ognuno con le sue caratteristiche e potenzialità economiche, i suoi leader, i suoi confini, i suoi diritti, e i suoi doveri. Da qui anche l’esigenza che, quando verrà il momento, il governo israeliano sia pronto istantaneamente a intavolare trattative separate con queste due altre entità, incompatibili, separate da odio profondo e da un ricco passato di guerra civile, o di guerra tout court – dunque con i leader di queste due entità, chiunque essi siano. Se a Gaza domina Hamas, ben venga la trattativa con Hamas, quando lo vorrà, quando riterrà che i danni militari subiti sono sufficienti, o forse quando penserà che la vittoria è stata abbastanza “smagliante”. Sul piano mediatico, il più debole e complesso per Israele, continuano a prevalere le idee preconcette, la mancanza di approfondimento, l’ignoranza dei fatti nei dettagli, o la semplice deficienza. A partire dall’esplicita insoddisfazione per l’insufficiente numero di vittime da parte israeliana, proseguendo con le cartine geografiche sbagliate nei nomi e nei luoghi, fino alla pertinace sopravvivenza dei logori concetti del “governo di Tel Aviv”, del “blitz”, e dei “tank con la stella di Davide” (che c’è effettivamente sugli aerei militari ma non sui carri armati). Riemerge dagli sprofondi del pregiudizio il concetto di “lobby ebraica”, putativamente reponsabile di manovrare le “marionette” americane e egiziane. Le sottili paratie fra anti-israelianismo e antisemitismo sono sempre più logore. Ma le divisioni interne della politica israeliana e la simultanea presenza di voci di cauto equilibrio accanto a voci di velleitario massimalismo creano a Israele danni di portata strategica. La partita, dunque, non è conclusa.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

(17 luglio 2014)