Il gioco delle iperboli

claudiovercelliQualche notazione si impone, facendo la tara delle troppe parole che circolano liberamente in questi giorni, rispetto al confronto armato che sta contrapponendo Israele ad Hamas. Peraltro, il campo di battaglia non è solo fisico: lo scontro, infatti, è non di meno mediatico. Si potrà obiettare che tutto ciò non costituisca in sé una novità; anzi, che almeno dalla guerra del Vietnam in poi i piani della contrapposizione siano sempre stati molteplici. Due, in particolare modo, strettamente intersecati: quello dei fatti e quello delle loro interpretazioni. La soluzione più semplice, dinanzi alla sfida delle raffigurazioni ricorrenti del conflitto, è quella di dividere con la spada la “buona” dalla “cattiva” informazione. Se si tratta di dire che vanno tenuti distinti, e rigorosamente, i piani della comunicazione pubblica da quelli della propaganda, non si può che essere d’accordo. Tuttavia, è bene avere in chiaro due ulteriori aspetti: il primo ci invita a diffidare della banalità, altrimenti assai diffusa, e quindi – purtroppo – di senso comune, per la quale i fatti possano essere scissi una volta per sempre dalle opinioni. Anche solo lo sguardo prospettico dal quale si pone l’osservatore, non importa di cosa (ad esempio un paesaggio), determina il resoconto che andrà facendo di ciò che sta guardando.

In questo caso, il rischio è di ritenere “buona informazione”, ossia oggettiva, solo quella che soddisfa e gratifica le nostre aspettative. Non di meno, ed è il secondo aspetto, come già osservavamo in esordio, la guerra della comunicazione è parte stessa dei conflitti in corso. A volte quasi si sostituisce ad essi o ne alimenta gli sviluppi. Israele se ne accorse definitivamente (ma non era nuova a tali riscontri), e a sue spese, negli anni della prima Intifada, tra il 1987 e il 1993, quando la presenza sul campo delle troupe di tutto il mondo, alla spasmodica ricerca di “eventi”, di fatti e soprattutto di “fattacci”, costituì un elemento non secondario nell’evoluzione della contrapposizione materiale, fisica, sul campo. Peraltro, tale conflitto di raffigurazioni non si gioca solo sul dire o sul non dire, sul mettere o sull’omettere, sul riconoscere o sullo stravolgere, sull’affermare e sul negare, sulla buona e sulla cattiva coscienza, sulla professionalità o meno (quali sono poi i parametri certi che definiscono l’una e, di riflesso, la sua mancanza, quand’essa si verifica?) ma anche e soprattutto sulla necessità ossessiva di rappresentare quanto avviene per offrirlo del pari, quasi, ad un prodotto commerciale, ad un pubblico in grado di consumarlo. In un’eta del mondo quale quello in cui stiamo vivendo, dove la «società della conoscenza» si interseca a quella dell’«informazione totale», cosiddetta in «tempo reale», non si sfugge all’uno e all’altro aspetto del problema. La guerra è sudore, sangue e polvere per chi la fa. Lo è ancora di più per chi la subisce, a partire dai civili. Ma è divenuta un clamoroso, enfatico, ipertrofico spettacolo per il resto del mondo. Se al conflitto in armi i più vorrebbero sottrarsi, al secondo, quello delle raffigurazioni, quasi nessuno dice di no. Si tratta di una scenografia dove, pantofole ai piedi, telecomando in una mano e mouse nell’altra, si può fingere di essere parte integrande di un wargame ora incredibilmente realistico, avventuroso ma per nulla rischioso. L’arma ricorrente è l’indignazione ad alto tasso emotivo. A telecomando, per l’appunto. Poiché essa, per il fatto stesso di esprimersi, azzera qualsiasi forma di comunicazione e scambio.

L’indignazione, di contro a quanto pensano ancora certuni, non è detto che sia il primo movente per azionare la politica. Oggi, sempre più spesso, costituisce semmai l’esatto opposto, ossia lo strumento per chiudersi nel fortilizio eburneo dell’indifferenza. Indiffernza verso ciò che ci sta intorno ma non collima con le nostre aspettative. Poiché se così tanta è l’indisponibilità verso la controparte, essa non potrà portare che ad una conclusione, ossia che l’unica soluzione sia la distruzione integrale della controparte medesima, che assomma su sé tutti i disvalori e le nequizie di questo mondo. L’indecenza della comunicazione, il suo sbracamento, la sua letterale oscenità nascono da questo stato di cose, prima ancora che da calcoli di interesse o di circostanza. Che poi ci siano gli uni e gli altri è non meno vero. Ma il confronto in atto, nella sua belluina intensità, sta dentro questo circuito abominevole. E che si riproduce da sé, essendo una vera e propria merce da consumare, con tanto di proventi ed utili. Un circuito che ha partorito, tra tante cose, l’accusa, oggi di moda nei social network, che imputerebbe ad Israele la volontà di commettere un «genocidio» ai danni delle popolazioni palestinesi. La battaglia dei fake, delle fotografie della macelleria siro-irachena spostata a Gaza, sta dentro questa dinamica. Non è un rimando casuale, peraltro, essendo parte dell’armamentario antisemitico. Ciò che dalla guerra del Libano, nel 1982, in poi è avvenuto è il definitivo slittamento dai temi antisionisti a quelli antisemitici, con una sovrapposizione dei secondi ai primi. D’altro canto, uno dei fattori di perduranza del confronto tra Israele e le organizzazioni palestinesi è che ci si trova dinanzi ad un classico conflitto asimmetrico, laddove i soggetti un campo sono da una parte l’esercito di uno Stato e, dall’altra, una formazione politico-militare che aspira ad identificarsi con la totalità delle funzioni della comunità palestinese, che dice di rappresentare.

Tralasciamo, una volta tanto, qualsiasi osservazione politica e andiamo al nodo della questione. Lo scontro, infatti, non è solo quello armato, al quale stiamo assistendo in queste ore, ma ha a che fare, se lo si considera nel suo lungo periodo, con un aspetto simbolico imprescindibile, ossia la questione della legittimazione. È un tema capitale per lo Stato d’Israele, di cui si dice, da parte dei suoi detrattori, per volerne destituire le ragioni storiche e morali della sua stessa esistenza, che sarebbe un’«entità sionista» e null’altro. Ma lo è anche per Hamas. Che non a caso è ricorsa alle vie di fatto nel momento in cui ha riscontrato il crescente calo di consenso e, quindi, la delegittimazione sempre più diffusa nei suoi confronti. Se non fosse stato un solo movimento partigiano, una fazione in difficoltà, bensì un’articolazione pubblica di uno Stato in fieri, come vuole invece presentarsi, non si sarebbe trovata in queste condizioni. Ma è l’intera politica palestinese, che mai si è emancipata dal suo essere assoggettata a gruppi e clan patrimonialistici, a non avere mai preso quota.

Riducendosi al vuoto attuale, compensato, per così dire, dal ricorso alla violenza sistematica. L’ossessiva ripetizione di quell’insieme di atti, fatti, atteggiamenti ma anche parole, dichiarazioni, pensieri che definiamo «conflitto israelo-palestinese» ha a che fare senz’altro con ragioni materiali ma rimanda da subito ai simbolismi del potere: in questo caso, più che mai, a chi ha il diritto di esercitare la sua volontà su un determinato territorio e con quali effetti. E si traduce in un processo di delegittimazione reciproca senza nessun effetto che non sia la riproduzione del conflitto medesimo. Il sistema mediatico ha paradossalmente bisogno di una guerra di tale genere, nel quale tutto sembra ripetersi con la stessa inesorabilità e per cui qualsiasi parola sembra perdersi nel vuoto pneumatico della retorica del “già visto”, del “già detto”, del “già fatto”. Da questo punto di vista, la «battaglia dell’informazione» è comunque perduta. E non per una sproporzione di campo bensì per una domanda diffusa, da parte di una platea mediatizzata che, fingendo di volere prendere le parti di chi descrive come il “più debole” e il “maggiormente indifeso”, ossia l’ingiustamente ferito, continua a giocare, per così dire, con la morte altrui pensando che la ragione propria stia nel guardare, nel parteggiare e nel sentenziare. In un’assordante e a tratti isterica cacofonia, dove qualsiasi parola si traduce in un suono deformato.

Claudio Vercelli

(20 luglio 2014)