…confronti

Le reazioni delle società occidentali al rinnovato conflitto fra Israele e Hamas hanno introdotto un elemento inedito di cui credo bisognerà tenere conto nel prossimo futuro. Di certo sono allarmanti le manifestazioni di un rinnovato antisemitismo, che ha trasferito a tratti nelle strade di Parigi, di Londra o altrove lo scontro mediorientale. Non più solo antisemitismo occidentale, ma antisemitismo di masse islamiche europee che non fanno alcuna differenza fra ebrei e Israele, né probabilmente fra Israele e America e Occidente in generale. Ma non si tratta solo di questo. L’impressione è che quest’ultima guerra (che è di fatto limitata se paragonata a quelle precedenti) rappresenti un vero e proprio spartiacque nei rapporti fra la civiltà occidentale, Israele e il mondo ebraico.
Il terreno di confronto è duplice, ed è nel contempo storico e etico. In primo luogo vi è la questione della Shoah. Non importa se il nesso storico, politico e diplomatico fra nascita dello Stato di Israele e sterminio degli ebrei in Europa sia decisamente labile (è noto che le discussioni all’ONU sulla spartizione della Palestina avevano a che fare assai di più con i nuovi equilibri strategici della guerra fredda che non con i poveri morti di Auschwitz). Importa invece – e molto – la narrazione che di questo nesso emerge nel mondo occidentale e in Medio Oriente. E questa narrazione, condivisa ormai generalmente seppure manifestamente falsa, ci dice che Israele sarebbe nata come risarcimento agli ebrei voluto dall’Occidente per quel che era accaduto nei campi di sterminio, un atto di tardivo neocolonialismo compiuto a spese dei palestinesi. È con questa narrazione che dobbiamo fare i conti, e da questa dobbiamo partire se vogliamo capire nel profondo il nesso che viene indebitamente ma automaticamente stabilito fra la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele. C’è da dire che Israele ci ha messo del suo: la trasformazione dello Yad Vashem, il museo dedicato allo sterminio degli ebrei in Europa, a luogo in cui viene proposta al mondo la Shoah come fondamenta morale su cui si basa il diritto di esistere dello stato d’Israele ha determinato un’accettazione sostanziale della narrazione di cui sopra. (NB: sarebbe interessante sapere da quando è iniziato l’uso di portare le delegazioni straniere a deporre corone di fiori nella sala dedicata ai sei milioni di morti della Shoah invece che – come si usa per esempio qui in Italia – sulla tomba del milite ignoto. Una svolta è prevista per il prossimo anno, quando verrà inaugurato il National Memorial sul Monte Herzl http://www.archilovers.com/projects/129830/national-memorial-on-mount-herzl.html ). È con queste premesse che la Shoah diventa un punto di riferimento dell’immaginario collettivo quando si scatenano le reazioni ai bombardamenti su Gaza, ed è da qui che prende le mosse quella che chiamerei una rapida “perdita di credito” da parte di Israele e dell’ebraismo tutto in rapporto all’eredità dello sterminio. In altre parole: se facciamo riferimento alla storia delle Memoria della Shoah, si è passati da un’iniziale indifferenza a una crescita progressiva di attenzione che ha conosciuto il suo apice negli anni immediatamente successivi all’istituzione della Giornata della Memoria. Per diversi anni da allora la Shoah è stata rappresentata come il centro della narrazione del secondo conflitto mondiale, e gli ebrei sono diventati una sorta di sacerdoti della memoria. In nome di quella memoria gli ebrei e le loro istituzioni hanno avuto per molto tempo un credito sul piano politico e intellettuale e una certa visibilità pubblica, che era del tutto funzionale e speculare alla necessità (pelosa) dei paesi e delle società occidentali di lavarsi la coscienza e liberarsi sul piano morale delle responsabilità di quanto avvenuto nel secondo conflitto mondiale. Ora però, complice la complicazione etica del conflitto a Gaza, quella visibilità e quel credito si vanno esaurendo. E qui veniamo al secondo corno della questione, appunto l’etica del conflitto. Non c’è dubbio che dal punto di vista militare (nell’ottica del breve conflitto con Hamas) la dinamica è chiara e sul piano morale si giustifica come guerra di difesa: aggressione missilistica e uso di scudi umani contro difesa antimissile e azioni di contenimento, almeno fino all’operazione di terra. Inutile ripetere quanto si legge da troppo tempo in tutte le salse sui social network. Tuttavia non c’è dubbio che non siamo autorizzati a ridurre tutto a quel che è avvenuto nelle ultime tre settimane. Alla base del conflitto c’è una dinamica oggettivamente ingiusta e punitiva che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi di Israele nei confronti della realtà palestinese. Una amministrazione militare non può governare per un tempo indefinito su un territorio senza commettere inevitabilmente gravi iniquità (gli stessi israeliani lo sanno bene, e i più vecchi hanno buona memoria di quel che era il Mandato britannico). Certo, la scarsa e dubbia levatura politica e morale della leadership palestinese non aiuta e non spinge nella direzione di aperture, ma oramai il livello dello scontro si è spostato sulle società nel loro complesso e non è più possibile fare affidamento sull’idea dello status quo. Le madri e le mogli delle centinaia di ragazzi morti (sotto i bombardamenti a Gaza, o con la divisa di militari in Israele) non accetteranno nel futuro altre risposte se non una decisa conclusione di definitive trattative di pace, con chiunque abbia poi la forza di farne rispettare le condizioni. È una strada a senso unico e con una scadenza ben precisa e molto ravvicinata. Sta a noi, a tutti noi, far sì che alla fine della strada ci siano due democrazie che si confrontano e si parlano (e l’opzione non è per nulla scontata visti i sintomi neofascisti che serpeggiano su entrambi i fronti), così come fanno già le due società, nonostante le bombe.

Gadi Luzzatto Voghera

(25 luglio 2014)