I fatti

claudiovercelliForse sarebbe bene chiarirsi un po’ le idee su come stiano le cose nella Striscia di Gaza. Perché altrimenti questa puntata, l’ennesima, del confronto con Israele rischia di risultare non solo incomprensibile ma anche piena di fraintendimenti. I quali, volutamente vengono sostituiti ai fatti, essendo questi ultimi molto legati a quell’azione asfissiante, ossessiva di mitologizzazione della realtà che è in corso. Un diluvio di immagini, in altre parole, tutte molto simili se non identiche, dalle quali si desume poco o nulla. Ovvero, se non che ci sarebbero militari contrapposti a civili. Già abbiamo detto che quest’ultimo aspetto, la guerra delle raffigurazioni, è parte integrante della contrapposizione in atto. Inutile dolersene, anche perché non cambia di una virgola lo stato delle cose. Che l’esercito di Gerusalemme non si sia mosso per “rappresaglia” nei confronti dei tre ragazzi assassinati in Cisgiordania dovrebbe essere evidente, anche se qualcuno continua a pensarlo, sia pure molto confusamente, stabilendo un nesso causale tanto facile quanto falso. Del pari, che non ci sia un’immediata correlazione tra l’uccisione dei tre giovani e il lancio quotidiano di razzi dalla Striscia è non meno vero. In realtà appare del tutto plausibile che il crimine commesso ai danni dei tre sia da imputarsi alle dinamiche interne, ad alto tasso di conflittualità, che attraversano da tempo Hamas, scomponendola e fazionalizzandola. La quale, per l’appunto, non è un monolito, come credono in tanti, ma una sorta di coalizione di gruppi di interessi, spesso in competizione tra di loro. Poiché Hamas rappresenta soprattutto quelle famiglie politiche e quei gruppi di interesse di cui rimane una sorta di baricentro oligarchico. Dopo di che, cosa sta succedendo? Tutto quello che possiamo raccontarci su ciò che è stato indica che nel suo insieme ha funzionato fino a qualche tempo fa. Poi, lo stravolgimento degli equilibri nel Medio Oriente, nel quale stanno velocemente mutando attori e ruoli, ha mandato a carte quarantotto le già fragili costruzioni interne al movimento islamista. Le alleanze con i movimenti e gli Stati stranieri ne sono uscite stravolte, in una sorta di effetto domino: salta un tassello, saltano gli altri, si scompone la successione logica dei rapporti. L’Egitto di al-Sisi, dopo la parentesi Morsi, ha letteralmente voltato le spalle ai “fratelli palestinesi”. Il suo esercito è quotidianamente impegnato in un’opera di contenimento nella zona meridionale della Striscia, tra Rafah e Khan Younis. Dove il perimetro confinario è non meno rigido di quello che vale per il nord. Qualora dovesse usare la mano pesante – ed in parte è già capitato – non se lo farebbe dire due volte. Le riserve di accondiscendenza si sono esaurite. Se lo sguardo europeo fosse un po’ più disincantato, si accorgerebbe che agli egiziani quanto sta avvenendo nell’area centro-settentrionale della Striscia non guasta più di tanto, almeno per il momento. Ad presidente al-Sisi il primo ministro Netanyahu sta facendo un favore, adoperandosi in una sorta di ‘dirty job’ che il Cairo non può (ancora) consentirsi. Da questo punto di vista, si potrebbe quasi leggere, dietro ai fatti in corso, una sorta di divisione dei compiti: io intervengo, con il tuo tacito assenso, permettendoti di puntellare il tuo altrimenti fragile potere; tu manterrai la linea di scambio politico e diplomatico che dal 1978 in poi il tuo paese intrattiene con il mio. In fondo, gli interessi in comune sopravanzano il resto. Uno di questi è di regolare i conti una volta per sempre non tanto con l’islamismo radicale, una galassia in sé mutevole e sfuggente, ma con quelle ali che diventano, di volta in volta, incontrollabili. Altrettanto va detto di uno degli storici sostenitori del movimento sunnita, la Siria di Bashir al-Assad, che già del suo naviga in acque incerte, come ben sappiamo. Per soprammercato il legame d’acciaio si è trasformato in un rapporto di latta. Fine di uno storico sodalizio, mentre i gruppi che ruotano intorno all’Isil, tra Siria e Iraq, inneggiano non solo al califfato islamico ma ai più prosaici regolamenti di conti tra “parenti-serpenti”. Che l’islamismo radicale sia (anche) un insieme di conflitti infra-musulmani non lo scopriamo certo da oggi. Ma adesso ne misuriamo la potenza dirompente. Gli algerini, per intenderci, già vent’anni fa l’avevano capito, sulla loro pelle. Hamas, infatti, si gioca il suo futuro, sentendo il peso dell’isolamento. Per questo ha rotto gli argini, non potendo più sperare che ciò coincidesse con un accettabile status quo. Continuando nella rassegna, dal versante iraniano arrivano infatti solo peste e corna. Certamente perché a Teheran sono sciiti ma anche poiché politicamente concorrenti, nel momento in cui il regime del dopo Ahmadinejad misura i nuovi passi possibili in rapporto al ruolo regionale turco, al protagonismo russo, all’assenza americana. Il movimento della Jihad islamica palestinese, radicato in Cisgiordania, da tempo contende spazi e ruoli ad Hamas. Lo fa sapendo di potere contare sull’assenso egiziano, trattandosi di un gruppo sostanzialmente estraneo ai Fratelli musulmani, la bestia nera dell’attuale gruppo dirigente cairota. Così come di quello di quei grandi registi della regione che sono i sauditi, la cui forza sta nel muovere con costanza le diverse pedine dello scacchiere, sapendo che l’agitare continuamente le acque costituisce per loro la migliore garanzia rispetto alla propria continuità dinastica. Tutto questo per intenderci sulle grandi linee. Quelle che stanno mutando in una sorta di effetto a catena. Poi ci sono problemi ben più contingenti ma che, sommandosi alla dimensione di quadro, hanno costituito la classica goccia che in queste settimane ha fatto traboccare il vaso già ricolmo del suo. La quale, nel caso di Gaza, è stata, ancora una volta, la questione del denaro. Poiché Hamas è cortocircuitata sulla mancanza di soldi. Banale, e poco glorioso, a credersi, almeno per chi indulge nella lettura fondata sulla bontà dell’antimperialismo militante. Assai più comprensibile per chi sa che Hamas fa le veci di uno Stato che non c’è, quello palestinese, e che mai, in tutta probabilità, vorrebbe vedere realizzato. In quanto di tale entità nazionale surroga poteri e prerogative, rinnovando l’appello alla lotta contro il sionismo come promessa di un paradiso a venire. Tale surroga è la sua stessa ragione d’esistere. E di continuare a farlo. In una sorta di monopolio che però va facendosi sempre più caduco, asfittico, insidiato dall’altrui concorrenza. Va da sé che per una parte importante della comunità palestinese dei Territori, in Cisgiordania come a Gaza, una rilevante fonte di reddito sia costituita dai trasferimenti economici provenienti dalle autorità. Abu Mazen e Khaled Meshal (quest’ultimo in auto-esilio nel Qatar) sono anche i garanti che gli stipendi devoluti dalle amministrazioni palestinesi arrivino ai diretti interessati. Prima ancora di nascere lo Stato palestinese, infatti, può già contare su un’articolazione burocratica di tutto rispetto, a tratti elefantiaca. I soldi solo in minor parte arrivano dai proventi della tassazione locale, mentre sono soprattutto il prodotto di trasferimenti dall’esterno, così come di rimesse. Dunque, per venire al punto, quei soldi non stanno più arrivando. Per meglio dire, ci sono ma unicamente per i funzionari, gli impiegati e gli amministrativi dell’Autorità nazionale palestinese, quella di Ramallah. Nulla per Gaza. In altre parole, rubinetti chiusi e crisi di panico tra gli esclusi. Anche una recente tranche di alcune decine di milioni di dollari, arrivata dal Qatar, è stata bloccata dalla Banca centrale palestinese. Per quale motivo? Non è facile a dirsi, ma di certo Abu Mazen intendeva dare una scossa tellurica alle relazioni con i gazawi. Poiché anche lui sa che lo status quo non gli garantisce più quella rendita di posizione sulla quale ha potuto per lungo tempo contare, senza fare nulla di veramente significativo. Dal che anche la costituzione, obtorto collo, poche settimane fa, del scialbo e incolore governo di unità nazionale tra Hamas e Fatah, definito di «solidarietà» e di «transizione», con l’obiettivo di organizzare le prossime elezioni presidenziali e legislative. Nelle quali gli islamisti avranno senz’altro maggiori difficoltà a presentarsi come una convincente alternativa al notabilato patrimonialista che è tanta parte del seguito del presidente palestinese. Se Fatah e Olp, insieme all’Autorità nazionale palestinese, viaggiano in acque difficili, accusati di tante colpe, a partire dalla corruzione imperante, Hamas ha bruciato una parte delle carte che aveva a disposizione. Il tempo è passato, dalla vittoria alle legislative del 2006 e dal regolamento di conti del 2007, e per molti aspetti invano. L’essersi “accomodati” in una posizione di difesa del proprio fortilizio, senza fare politica, sia con Fatah che con l’odiata «entità sionista», ha messo in discussione la precaria stabilità dei tempi trascorsi. E dà all’organizzazione il senso del soffocamento. Da qui, e da tutto il resto, la rabbiosa risposta che si e’ tradotta in una sorta di apocalisse missilistica. Hezbollah, che pure non è usa a rimanere con le mani in mano, per il momento guarda e aspetta che trascorra l’onda di piena. Con le sue vittime, reali e figurate. Ha concorso a fornire del know-how combattentistico ad Hamas che, militarmente parlando, si sta rivelando meglio capace di condurre un confronto nelle aree urbane di quanto non fosse capitato all’epoca dell’operazione «Piombo fuso». Ma benché ciò costituisca soprattutto un moltiplicatore di vittime civili, in un’area di 360 chilometri quadrati, con poco meno di due milioni di abitanti, non è questione sulla quale soffermarsi per chi ritiene, in un modo o nell’altro, che tutta la popolazione debba considerarsi mobilitata. D’altro canto, l’idea che la propria esistenza sia destinata a costituire un eterno esempio di militanza, e come tale possa essere usata come un’arma, è speculare all’irrealizzabilità politica di uno Stato che esiste negli auspici degli uni, nei sogni di altri e negli incubi della parte restante, ma che al momento è solo quello che qualcuno definirebbe come una mera «categoria dello spirito».

Claudio Vercelli

(27 luglio 2014)