Il prisma palestinese
La realtà palestinese è un universo composito, un vero e proprio prisma identitario, costituito da una complessa stratificazione di elementi. La presenza della popolazione interessa l’intera regione mediorientale, contando su una pluralità di insediamenti. Rifacendosi ai dati disponibili per il tramite del Palestinian Central Bureau of Statistics (il PCBS), riguardo all’anno 2013, in Cisgiordania risiedono più di 2 milioni e settecentomila palestinesi, a Gaza un milione e settecentomila seguiti a ruota dalla Giordania, dove il nucleo attuale consta di ben 3 milioni e 240mila elementi; poi ancora la Siria, con ancora 630mila soggetti (anche se il numero è qui soggetto alle oscillazioni causate dal conflitto civile in corso), a sua volta seguita dal Libano, soprattutto nella regione meridionale, dove abitano più di 400mila persone, dall’Arabia Saudita e dall’Egitto con 280mila palestinesi a testa, dagli Emirati arabi uniti (a quota 170mila), dal Qatar (100mila), dal Kuwait (80mila), dall’Iraq e lo Yemen (55mila ciascuno), dalla Libia (44mila) e, sempre per rimanere nell’area mediorientale, dal Pakistan (10mila soggetti). Fuori dal circuito mediorientale le migrazioni e la diaspora palestinese trovano i loro presidi più rilevanti nel Cile (mezzo milione), negli Stati Uniti (400mila), in Honduras (250mila), in Messico (120mila) e così via. In Europa è la Germania, con 80mila presenze, a surclassare gli altri paesi infracontinentali.
Gli arabi israeliani, secondo il Bureau competente di Gerusalemme, sono – per l’anno appena trascorso – 1 milione e 658mila. Ad un primo, veloce calcolo si arriva così ad almeno cinque milioni di individui che raddoppiano se si tengono in considerazione le cifre che il PCBS indica come veridiche e comunque fondate. O quanto meno verosimili, almeno secondo criteri di discendenza, variamente calcolati. In realtà queste ultime sono state messe ripetutamente in discussione, anche da un punto di vista scientifico, contestandone il difetto di rigore. Rimane il fatto che i tre ceppi più importanti sono quelli del West Bank e di Gaza (4milioni e 4mila circa, complessivamente), della Giordania e del Libano meridionale. Discorso a sé è la questione dei criteri con i quali definire, ovviamente non solo in chiave demografica ma anche politica, gli israeliani di origine araba. Poiché se in questo caso può valere, su un piano culturale, il rimando ad una identificazione trascorsa, quella con le generazioni primigenie e le discendenze famigliari dell’epoca ottomana e mandataria, la cittadinanza e l’appartenenza a pieno titolo ad uno Stato nato nel secolo trascorso contribuiscono non poco a mutare i termini della questione. E tuttavia, come ben sanno non solo i demografi ma anche i politologi, alla cittadinanza giuridica non coincide né corrisponde in automatico l’identità culturale. Non almeno nel senso di amalgamare (e frullare) il tutto. Dopo di che queste considerazioni preliminari servono per meglio rendere il senso della complessità della realtà palestinese nei Territori dell’Autonomia e a Gaza. Anche per questa ragione la sua rappresentanza politica è non meno articolata, a tratti quasi faticosa da intendere, anche per un certo grado di mobilità nelle appartenenze, fatto incentivato dalla trasmigrazione da un gruppo ad un altro, secondo logiche di opportunità come di immedesimazione. Va subito detto che, contrariamente alle facili equazioni, dire «palestinese» non implica affermare in automatico che questi sia militante di un qualcosa.
Nell’immaginario comune, quello incentivato dal conflitto in corso con Israele, l’idea che i palestinesi siano una collettività perennemente mobilitata, pressoché da sempre, in politica, solletica facili nonché improprie identificazioni. In parte è questo il calco consegnatoci dalla lunga stagione dell’Olp e del predominio del Fatah di Yasser Arafat, dove la mediatizzazione dello scontro armato aveva indotto la percezione, piuttosto diffusa, che i “guerriglieri” arabi, i fedayyin, fossero l’equivalente dei vietcong nelle risaie del Sud-Est asiatico e che come in quest’ultimo caso anche nel primo tutta la popolazione civile costituisse parte organica di una sollevazione nazionale permanente. Nei fatti le cose avevano – ed oggi ancor più hanno – proporzioni e valenze non necessariamente così dirette. Il grado di politicizzazione tra le vecchie e le giovani generazioni è rimasto alto, complice la perdurante instabilità in cui si trovano le comunità arabe locali così come in ragione del buon livello di scolarizzazione. Fatto, quest’ultimo, che incide nei tassi di partecipazione alla vita pubblica attraverso partiti, movimenti, associazioni e così via, in un reticolo molto ampio e sviluppato. Ma conta anche l’aspettativa – questa eterodiretta, ossia creata dall’esterno, ovvero da chi osserva l’evoluzione a spirale del confronto con Gerusalemme – che vuole i palestinesi come una sorta di “popolo combattente”, purchessia. Intorno a questo paradigma, spesso immaginario o comunque fantasioso, si costruisce poi una intelaiatura che attribuisce e rivendica ai palestinesi un’unitarietà di indirizzo politico invece il più delle volte assente. Tutta la storia delle comunità arabe palestinesi si confronta dialetticamente con questo dato, dove la tensione verso un’unificazione si è sempre scontrata con l’elevata fazionalizzazione interna. Elemento, questo, che non è prerogativa solo di Gaza e Ramallah ma che deve indurre a valutare, con ponderazione con chi si ha a che fare, di volta in volta. Poiché, nei conflitti bipolarizzati, se la frammentazione altrui può essere un vantaggio competitivo nell’immediato (“sono divisi e quindi meno forti”) sul medio periodo induce a dei ritorni spesso negativi anche per la controparte, che non riesce né può sapere quale sia il vero grado di autorevolezza degli interlocutori con i quali sta contrattando. Tanto meno quanto e quando gli accordi assunti verranno effettivamente rispettati, un fatto che dipende dall’effettiva capacità di imporsi sui propri sodali da parte di coloro che li hanno sottoscritti.
Se per uno Stato, che esercita una giurisdizione unitaria e ha organismi politici, diplomatici e militari tra di loro coordinati, espressione di maggioranze politiche scelte di volta in volta dalla collettività, il livello di capacità decisionale e coercitiva è elevatissimo, e quindi, presumibilmente, anche quello di mantenere fede agli impegni presi, ben diverso è il discorso per movimenti che hanno sì un’investitura popolare ma che non costituiscono istituzioni statali. Semmai ne surrogano le funzioni, dentro però percorsi e dinamiche di conflittualità persistente, a partire dal proprio interno. È precisamente quello che sta capitando con Hamas, dove la coalizione intestina di gruppi e di forze che la compongono si è divisa e sta misurando, attraverso il confronto missilistico scatenato contro i territori israeliani, su quali baricentri di forza possa o riesca a ricomporsi. Non paia quindi paradossale, e neanche cinico, il dire che quei razzi hanno due obiettivi: quello manifesto, ossia Israele nonché quello celato, il potere a Gaza. Dopo di che, se vogliamo ancora ragionare sulle forze in campo, oltre la medesima Striscia, al di là dei gruppi maggioritari possiamo contare su una cinquantina di soggetti che, a vario titolo e con maggiori o minori capacità operative, si trovano ad operare, costantemente o saltuariamente per il medesimo obiettivo. Che è spesso confuso nel binomio che lega la «costruzione dello Stato palestinese» alla «distruzione dell’entità sionista». Le linee di demarcazione tra questi due obiettivi sono volutamente sfumate (qualora non siano state invece dichiarate a priori), perché attraverso tale indeterminatezza ideologica i singoli gruppi possono muoversi con maggiore libertà politica, ritagliandosi spazi di azione e raccogliendo, di volta in volta, il consenso della popolazione. Tra le organizzazioni designate come terroristiche dal Dipartimento di Stato americano a Gaza significativa è la presenza del Movimento per la jihad islamica in Palestina, già attivo –in qualità di concorrente rispetto ad Hamas – dagli anni settanta. Nato da una costola egiziana, in rapporto con Hezbollah (benché quest’ultimo sia un movimento sciita), legato a doppio filo a Damasco, trova nelle Brigate al-Quds la sua propaggine militare. Il lancio dei razzi su Israele così come la rottura delle tregue, in tutta probabilità trova, tra i più convinti assertori, esponenti di questo movimento, che imputa ad Hamas una linea eccessivamente morbida nei confronti di Gerusalemme e, soprattutto, la scarsa valorizzazione del vero obiettivo, la distruzione dell’odiato Stato ebraico.
A queste filiazioni bellicose Hamas da sempre contrappone la sua componente militare, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, nate già nel 1992 con l’obiettivo dichiarato di fare naufragare i negoziati di Oslo. Segmento a sé, peraltro in forti tensioni con Hamas, è l’Esercito dell’Islam, filiazione di al-Qaeda, noto soprattutto per il rapimento di Gilad Shalit e del reporter della BBC Alan Johnston. Posizionato nella zona centrale e meridionale della Striscia, in realtà è espressione degli interessi del clan Doghmush, fortemente radicato in quell’area. In rapporto di incestuosa competitività con quelli precedenti è poi il gruppo sunnita di osservanza jihadista conosciuto come Jahafil Al-Tawhid Wal-Jihad fi Filastin, le «Armate del monoteismo e della Jihad in Palestina», nato nel 2008 e che raccoglie altri segmenti di osservanti del messaggio di Osaba bin Laden e Ayman al-Zawahiri. In tutta probabilità questa sigla è un cappello di un più ampio microcosmo di realtà terroristiche che ruotano intorno a Tawhid wal-Jihad o Tawhid and Jihad, «monoteismo e guerra santa» che, avendo dichiarato guerra ad ebrei e cristiani, sono tra gli artefici dell’assassinio del militante italiano Vittorio Arrigoni, avvenuto nell’aprile del 2011. Dopo il biennio terribile per Fatah e il microcosmo delle organizzazioni laiche arafattiste, quello tra il 2006 e il 2007, quando prima persero le elezioni e poi furono espulse con la violenza da Gaza, in Cisgiordania confluì quello che restava del reticolo di gruppi che avevano fatto la storia della milizia palestinese tra gli anni sessanta e novanta. Così per il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, per il Fronte di liberazione palestinese e per molte altre sigle, in stretta competizione tra di loro. Ricostruirne una mappa dettagliata è tanto necessario quanto difficile se non impervio nei fatti. Significativo, al di là delle grisaglie ministeriali assunte dai membri di Fatah e dell’Olp, immedesimatisi nella “linea istituzionale” di cui oggi Abu Mazen è il maggiore rappresentante, è invece il permanere, sempre a Gaza, ma spesso anche nella West Bank, dei Comitati di resistenza popolare, una sorta di struttura anch’essa ombrello, originatasi alla fine del 2000 per volere di Jamal Abu Samhadana, uno degli ex leader dell’Olp e del Tanzim (l’«Organizzazione», ala militare del Fatah, il cui capo carismatico è Marwan Barghouti). I Comitati sono composti da miliziani precedentemente affiliati al Fatah e a Hamas nonché da attivisti della Jihad Islamica e delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa che godono di una notevole capacità di adattamento alla mutevolezza delle circostanze, soprattutto sul piano operativo. Questo network organizzativo, oltremodo conflittuale al suo interno, deve confrontarsi con il mutamento di quadro geopolitica che è in corso in tutto il Medio Oriente. L’instabilità di Gaza, ovvero dei suoi poteri, e l’aggressività di Hamas sono una sorta di effetto specchio di questa fase di cambiamento. Che è ben lungi dall’essersi esaurita, come andiamo infatti notando.
Claudio Vercelli
(3 agosto 2014)