Periscopio – Buio
Tra le varie ragioni dell’angoscia che mi ha sempre accompagnato, negli interminabili giorni di questa terribile estate (lo stillicidio di razzi assassini, la martellante propaganda di odio e distruzione, i ragazzi ebrei e palestinesi assassinati, i soldati caduti, le innumerevoli vittime civili a Gaza, la massiccia disinformazione operata dai media mondiali, l’esponenziale aumento delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, con clienti ebrei cacciati dagli alberghi, medici che si rifiutano di curare pazienti israeliti ecc.), c’è sempre stata la paura che i terroristi di Hamas riuscissero a rapire qualche soldato israeliano, da destinare – come nel caso di Gilad Shalit – a lunghi anni di prigionia in rifugi sotterranei, senza alcun contatto con nessuna organizzazione umanitaria, o, peggio ancora – come nel caso di Ron Arad – da fare sparire nel nulla, senza permettere alla famiglia neanche di poterne mai piangere la morte. Questa paura è sembrata avverarsi quando un attentato, presso il valico di Rafah, effettuato poco dopo l’entrata in vigore di una tregua concordata tra le parti, ha portato alla morte di tre militari di Tsahal e alla scomparsa di un quarto, Hadar Goldin, la cui sorte, per diverse ore, è risultata incerta: morto anche lui, o rapito?
Confesso, che, per qualche momento, ho formulato un pensiero di cui poi mi sono vergognato: il desiderio che Goldin fosse morto. Cosa sarebbe cambiato nel triste conteggio dei militari colpiti, se le vittime fossero risultate, alla fine, 63 o 64, se a piangere fossero state 63 o 64 famiglie? Ben poco. Sarebbe cambiato molto, invece, se Hamas avesse avuto tra le mani questa preziosa merce di scambio, se Israele fosse stato costretto a rilasciare centinaia o migliaia di efferati terroristi, se l’opinione pubblica israeliana si fosse di nuovo spaccata tra opposti partiti “della fermezza” e “della trattativa”. La morte del soldato avrebbe evitato tutto questo. La morte scioglie i dubbi, risolve, semplifica.
Mentre coltivavo questi insani pensieri, ho letto gli accorati appelli dei genitori di Goldin: nostro figlio è vivo, lo sentiamo, non abbandonate la zona di combattimento prima di averlo riportato a casa. E il messaggio della sua fidanzata: coraggio, Hadar, presto potremo di nuovo ballare insieme. E, soprattutto, ho guardato la fotografia di Goldin: l’immagine di un bel ragazzo di ventitré anni, illuminata da un sorriso radioso, contagioso, un volto tanto simile a quello dei miei studenti. I suoi occhi ammiccanti sembravano dirmi: “per caso stai pensando a me?”.
Mi sono ricordato delle parole del Deuteronomio (3.19): “scegli la vita”, tanto più imperative quanto più vilipese, irrise, stracciate. “Noi amiamo la morte molto più di quanto voi amiate la vita”, diceva, in quegli stessi momenti, Mohammed Deif, uno dei capi di Hamas. Quello del Signore non è un Comandamento ovvio, scontato.
E mi sono vergognato.
Quando, qualche ora dopo, l’esercito ha ufficializzato la notizia della morte del militare, la notte è diventata ancora più buia, un’altra stella si è spenta nel cielo, per non riaccendersi mai più. Qualsiasi futuro ci sarà in quella terra martoriata, sarà senza il sorriso di Hadar.
Francesco Lucrezi, storico
(6 agosto 2014)