cuore…

In questa Parashà Moshè, sul punto di separarsi da Israele, gli fornisce le prove del favore divino per questo popolo e i motivi per cui esso debba mantenere la fedeltà a D.o; in essa Moshè ripete al popolo i punti del patto stipulato con D.o, il Decalogo; in essa troviamo le parole della prima parte dello Shemà‘, quelle parole che le nostre labbra balbettano insieme a “papà” e “mamma” nella nostra più tenera infanzia, quelle parole che sugli stipiti delle porte denotano l’ebraicità di una casa, quelle parole che in ogni giorno feriale, all’inizio della giornata, leghiamo al nostro braccio e al nostro capo per legare ad esse le nostre azioni, i nostri sentimenti ed i nostri pensieri, quelle parole, infine, che per ultime si pronunciano sul morente.
Questo è anche un sabato particolare, il primo dei sabati definiti “de-nechamathà’”, di consolazione: quello la cui Haftarà apre con l’invocazione “Nachamù, nachamù ‘ammì”, “consolate, consolate il Mio popolo”; e la consolazione viene dl fatto “ki nirtzà ‘awonàh”, “che l’espiazione della sua colpa è stata gradita”. Il popolo d’Israele ha sofferto, ma il ritorno all’adesione alla Torà, l’accettazione ed il superamento delle sofferenze trascorse riportando il suo comportamento a quanto raccomandato dalla Parashà, è di per sé consolazione. Di essa ognuno può e deve farsi autore; non a caso i Maestri hanno sottolineato che le parole “Shemà‘ Israel” che ognuno di noi ripete sono un richiamo a ogni singolo Ebreo: “Ascolta, Israele” dico io al mio vicino, “Ascolta, Israele” egli ripete all’altro.
Ma i Maestri sottolineano anche un altro aspetto: “En shemi‘à ellà’ ba-lèv”, dove compare il concetto di ascolto, nella Torà si deve intendere un ascolto fatto col cuore. È sul cuore e nel cuore che queste parole devono essere messe, legate, fissate, perché possano essere trasmesse intatte di generazione in generazione. Questa è la consolazione che ci dobbiamo aspettare, dandoci da fare per realizzarla, di momento in momento.

Elia Richetti, rabbino

(7 agosto 2014)