Il declino dello Stato
C’è un fenomeno in atto e fatichiamo a prenderne consapevolezza. Un po’ in tutto il Medio Oriente e nell’Africa mediterranea e subsahariana è in corso un processo di vera e proprio decomposizione dello Stato-nazionale. Strutture amministrative, politiche e sociali nate faticosamente nel Novecento, durante e dopo i processi di decolonizzazione, si stanno ora disintegrando. In realtà, i loro caratteri fittizi, ossia tirati per i capelli, non erano mai venuti meno, anche in anni migliori di quelli attuali. Il modello importato durante e dopo lo sfaldamento del sistema imperiale, soprattutto l’ottomano, ovvero quello dell’esperienza storica europea e in parte americana, fondata su una commistione di fragile liberaldemocrazia, di irrisolta economia mista e intervento pubblico clientelare nell’evoluzione delle dinamiche sociali, male si attagliava a società molto frammentate, laddove le fedeltà claniche e tribali non sono mai venute meno. Per inciso: quando si ricorre alla definizione di clanicità e tribalità non si evoca qualcosa di necessariamente arcaico e regressivo, rimandando piuttosto ad un vincolo di reciprocità preesistente a quello costituto dalla Stato, e che gli è sopravvissuto,. anche nel momento in cui quest’ultimo sembrava essersi affermato, con confini stabili, amministrazioni centralizzate e apparente monopolio della forza.
Queste aggregazioni, più che essere premoderne sono a tutt’oggi funzionali a stabilire criteri di appartenenza (e quindi, in immediato riflesso, di estraneità) e a definire chi può accedere alle risorse e chi invece ne è escluso. Così come chi può e deve controllare il territorio dove queste risorse si trovano. Se non si fa parte di un gruppo organizzato, e se non se ne rispettano regole e gerarchie, si è fuori gioco, ossia abbandonati a sé. Il caso della deflagrazione libica, al riguardo, è emblematica: venuto meno il rais Gheddafi, garante di una sorta di coalizione tra gruppi altrimenti contrapposti, gli antichi legami, peraltro mai usuratisi, sono tornati prepotentemente in auge. E con essi l’animosità e le conflittualità preesistenti. Con l’aggravante che quella terra – ma non solo essa -, è un’autentica polveriera, disseminata com’è di armi di ogni genere e tipo. La questione, ovviamente, riguardo non solo la Libia, in sé una creazione coloniale di cui l’Italia può vantare un non invidiabile imprimatur, e con essa la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Semmai è problema che rinvia sistematicamente a tutte le faglie di rottura interne tra quei gruppi che si contrappongono vicendevolmente nell’area del Mediterraneo, dell’Africa sub-sahariana e del Medio Oriente e il cui unico fine, il più delle volte, è il continuare a farlo. Tralasciamo qualsivoglia giudizio di valore, del tipo: “era meglio quando”, oppure, “è meglio così, adesso”. Ancora una volta la questione, piuttosto, è di porsi dal punto di vista dei fatti, se ci è concessa la capacità di ricostruirli, per poi procedere ad uno sforzo di analisi e comprensione. L’attenzione spasmodica verso il confronto tra Israele e Hamas sta ancora riempiendo le cronache, intasando la comunicazione, otturando i pensieri e saturandoli maniacalmente di cose già viste, già dette, già vissute. La forza di quel conflitto, oggi più che mai, è di occupare stabilmente la scena mediatica e la fantasia collettiva, così come fanno i campionati di calcio.
È la sua potenza dirompente, che riposa nella reiterazione, trattandosi altrimenti di un tassello di un mosaico ben più ampio, dove forme, proporzioni e collocazione dei protagonisti – se non la loro stessa natura – stanno mutando. Peraltro, detto per inciso, nessuna soluzione alla lunghissima vertenza aperta tra Israele e i palestinesi potrà avere corso se si prescinderà dal quadro geopolitico in quanto tale. Il quale è ciò che di meno favorevole ci sia per la costituzione di un nuovo Stato. Sul perché di questo riscontro, che non rimanda solo a Gaza piuttosto che a Ramallah ma, più in generale, a tutte le capitali del mondo arabo e musulmano, ovvero di quella lunghissima e composita successione di territori che dalla Mauritania arrivano fino all’Afghanistan, lambendo il nord come il sud, l’Africa come l’Asia, ci sarebbe da aprire una complessa discussione. Di certo quel ciclo inauguratosi con la stagione coloniale e postcoloniale, innescato quindi dalle stesse potenze occidentali, che si erano stabilmente insediate sulle terre altrui per poi progressivamente ritrarsi, sull’onda della spinta del principio di autodeterminazione e sulla scorta dei processi d’indipendenza nazionale, è oggi oramai definitivamente concluso. Non a caso ne misuriamo i cascami collassanti.
Se esso doveva portare ad una stabilizzazione di quelle aree, con la costituzione di un moderno sistema di Stati nazionali, si può ben dire che non abbia raggiunto tale risultato. Le nazioni non sono nate, se non asfitticamente; gli Stati, perlopiù da subito rivelatisi corporazioni di potere oligarchiche, stanno esaurendo la loro residua forza storica; le tensioni, invece che stemperarsi, si sono prima canalizzate nella perplessità di chi guarda scetticamente quanto accade, per poi riemergere rabbiosamente e trascendere in contrapposizioni armate. Di certo ha pesato in ciò la persistente marginalità economica di una parte di quei paesi, aree periferiche nel mercato mondiale del lavoro (ma non necessariamente nello sfruttamento delle risorse). Anche laddove le ricchezze non sono di certo mancate, il calco dello sviluppo e del progresso, intesi come evoluzione sulla scorta del modello europeo e anglosassone, non ne ha riprodotto le dinamiche. Se questo doveva essere l’obiettivo da raggiungere, beninteso. Le dinastie autoritarie della penisola arabica ne sono un riscontro certo, nella loro commistione di politiche interventiste sul piano sociale, feudalesimo politico e anacronismo civile. Laddove inoltre la cittadinanza, ossia il diritto a fruire dei benefici di un’appartenenza giuridica e politica, è concessa a ben pochi, a fronte di una grande quantità di persone pescate, di volta in volta, per gli usi più disparati in mercati del lavoro dove le diseguaglianze sono molto spesso sigillate dal vincolo dell’appartenenza etnica. A partire dai palestinesi, apprezzati come manodopera da sfruttare senza troppi complimenti.
Sulla complicità delle élite dirigenti arabe nel declino del Medio Oriente attuale, nella sua scomposizione e disintegrazione, ci sarebbe quindi da scrivere un trattato. Non è detto che in un prossimo futuro non lo si faccia. Poiché non basta parlare solo di “fallimento”, in quanto abbiamo inaugurato una stagione politica dai tratti non ancora chiari dove, tuttavia, è certo che lo Stato interetnico, di cui il baathismo in Siria e in Iraq fu, a suo tempo, un tentativo politico, o lo stesso nasserismo, con i suoi epigoni raccolti intorno a ciò che di esso resta, ossia l’esercito egiziano, faticano a tenere il passo. Ad essi, a gruppi dirigenti chiusi in sé, ossessivamente patrimonialisti, ossia perlopiù interessati ad alimentare la loro stessa ricchezza, in virtù dell’ascesa sociale di cui avevano abbondantemente goduto, e che quindi non hanno saputo fare fronte al crescente e poi dilagante disagio sociale, espressosi negli anni scorsi con i tumulti delle “primavere arabe”, si contrappongono ora nuovi gruppi, dai tratti in parte ancora indeterminati ma che del movimentismo fanno il loro più importante elemento di forza. È stato così con al-Qaeda e si ripete con ciò che si è integrato o sostituito ad essa, come l’Isil nell’ecatombe siro-irachena. L’una e gli altri hanno sempre giocato la carta della extra-territorialità, dell’assenza di confini, come punto di forza qualificante, rifacendosi ad una rilettura della dottrina islamista che destituisce gli Stati di un qualsiasi fondamento a favore, invece, delle forme di organizzazione politica sovranazionale, come i califfati. In realtà, questo costrutto, più che rispondere ad una precisa strategia politica e ad obiettivi incontrovertibili, ha supportato tatticamente due passaggi: delegittimare le oligarchie musulmane al potere e sostenere l’immagine, in sé galvanizzante, che il mondo islamico sia invece perennemente in “movimento”, essendo “rivoluzione” e non “conservazione”.
Gli Stati apparterrebbero alla seconda categoria e, per questo stesso fatto, sarebbero di per sé corrotti, fuori dall’ortodossia (per come l’islamismo radicale la configura), cercando di rafforzare se stessi, dentro confini prestabiliti, e non adoperandosi – invece – per l’islamizzazione universale. Non di meno, questo modo di presentare le cose serve a dare al pubblico, soprattutto quello mediatizzato (nuovo orizzonte di vecchie guerre), l’impressione che effettivamente ci sia una continua trasformazione in atto, con un forte seguito popolare, quando invece così non è, poiché stiamo assistendo a vere e proprie guerre civili, fortemente fazionalizzate, che usano la popolazione come perenne ostaggio. A modo suo, come già era capitato con le Guerre mondiali, soprattutto in Europa. i conflitti in corso servono a redistribuire i civili, espellendoli dai loro luoghi d’origine. Le ondate di profughi e di rifugiati, nel Mediterraneo, così come i fuggitivi in tutto l’area mediorientale, testimoniano di un processo di ridefinizione socio-demografica delle comunità locali. Il confronto tra Israele e Hamas si inserisce anche dentro queste dinamiche, pur non essendone la pedissequa ripetizione. Ovvero, è il nuovo capitolo, in questo scenario di mutamenti, di un vecchio conflitto. Non sorprende che i nostalgici del bipolarismo, organizzatisi in tifoserie, leggano con le lenti deformanti del passato le evoluzioni del presente. Richiamando gli Stati Uniti – che rischiano di essere sul lungo periodo i veri perdenti in questa complessa partita – al loro ruolo, vuoi di gendarmi universali vuoi di secondini dell’imperialismo, affinché ricompongano lo specchio andato in frantumi. Tuttavia, quanto si sta verificando è un ben più complesso meccanismo di rottura degli argini. Washington è in palese difficoltà, giocando di rimessa una partita strategica che è quella degli equilibri energetici, su cui Putin, l’abile satrapo moscovita, invece lancia le sue carte spregiudicatamente sul tavolo. Ma questa è già un’altra puntata del feroce serial, quello dedicato all’egemonia internazionale, al quale stiamo assistendo come spettatori, presto destinati ad essere chiamati nella nostra qualità di comprimari, o di figuranti, a pagare un qualche pegno. Vedremo allora se i guerrieri della domenica, quelli con il telecomando rovente in mano, che si infervorano dinanzi alle disgrazie del mondo, soprattutto certune, dimenticando perlopiù tutte le altre, avranno qualcosa di nuovo da dire o da aggiungere in merito.
Claudio Vercelli
(10 agosto 2014)