Argentina, giustizia dai tempi lunghi
È notizia di questi giorni che Estela de Carlotto ha potuto dopo 36 anni abbracciare suo nipote. La leader di quelle che oramai sono le Nonne di Plaza de Mayo – non più “Madres” dei decaparecidos argentini ma nonne alla ricerca di qualche traccia dei nipoti strappati appena nati alle madri – ha coronato il suo sogno, dopo anni di lotta instancabile, ricerca continua e militanza ostinata. Ma sono ancora circa quattrocento i bambini che mancano all’appello delle Nonne: di loro non si ha notizia, e sono ormai adulti, cresciuti da famiglie a volte complici, a volte completamente all’oscuro della storia dei neonati loro affidati.
Similmente non c’è ancora giustizia per le vittime dell’attentato che il 18 luglio del 1994 ha letteralmente polverizzato l’edificio dell’Amia, l’Associazione di Mutualità Israelita Argentina.
Sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche, distribuito nelle scorse settimane, una ricostruzione della vicenda.
Aspettando giustizia
Buenos Aires, lunedì 18 luglio 1994. Alle 9.53 in calle Pasteur 633 un furgone Renault Trafic si ferma davanti all’Amia (Associazione Mutualità Israelita Argentina). Il veicolo è imbottito con 275 chili di una miscela di fertilizzante a base di nitrato d’ammonio, gasolio e altri additivi. È una gigantesca bomba fai da te. Alle 9.53 Sebastian Barriero, cinque anni, cammina mano nella mano con sua madre, Rosa. Passano di fronte alle porte dell’Amia. La storia di Sebastian, assieme a quella di 84 persone, finisce qui. Un’esplosione investe la strada, polverizzando l’edificio di via Pasteur, un’enorme colonna di fumo e dolore si leva sul cielo di Buenos Aires. Alle 9.53 del 18 luglio 1994 il più sanguinoso attentato di matrice antisemita e della storia argentina spezza la vita di 85 persone e delle loro famiglie. Oltre 300 i feriti. Una tragedia che a distanza di vent’anni ancora chiede “justicia”, giustizia. Perché dopo due decadi di inchieste, insabbiamenti, corruzioni, nonostante sei mandati d’arresto internazionale, i parenti delle vittime sono tuttora orfani non solo dei loro cari ma anche della verità. Nessuno ha pagato per quel crimine. “Una disgrazia nazionale”, l’aveva definita nel 2005 l’allora preside Néstor Kirchner, incaricando il procuratore Alberto Nisman di portare finalmente luce sulla vicenda. Settecento pagine d’indagine che portarono nel 2006 alla seguente conclusione: l’attentato era stato organizzato da una cellula del gruppo terroristico Hezbollah – l’attentatore suicida alla guida del furgone, secondo le analisi del Dna, si chiamava Ibrahim Hussein Berro, ventunenne di origini libanesi – su direttiva di sei funzionari iraniani. Le accuse di Nisman furono suffragate nel 2007 dalla commissione esecutiva dell’Interpol (Organizzazione Internazionale della Polizia Criminale) che spicco il mandato d’arresto per sei persone: Imad Fayez Mughniyah, Ali Fallahijan, Mohsen Rabbani, Ahmad Reza Asghari, Ahmad Vahidi e Mohsen Rezai.
Imad Fayez Mughniyah, noto come Hajj Radwan, era considerato uno dei fondatori di Hezbollah. Nel suo sanguinario curriculum, decine di attentati e centinaia di morti. Le autorità argentine lo indicavano come il responsabile, oltre ai fatti dell’Amia, dell’attentato all’ambasciata israeliana di Buenos Aires del 17 marzo 1992 in cui morirono 29 persone. Il 12 febbraio del 2008 Radwan è stato ucciso a Damasco.
Ali Fallahijan è stato ministro dei Servizi segreti iraniani del presidente Ali Akbar Rafsanjani dal 1989 al 1997. Nel 1996 la Corte tedesca ha spiccato un mandato di arresto contro di lui per l’assassinio a Berlino nel 1992 di tre op- positori iraniani. Nel 2013 era tra i candidati alle presidenziali iraniane. Mohsen Rabbani, considerato il cervello dell’attentato all’Amia, dal 1994 al 1998 è stato consigliere culturale dell’ambasciata iraniana a Buenos Aires. Con lui, tra i funzionari dell’ambasciata, anche Ahmad Reza Asghari.
Tra i nomi di primo piano su cui cade il mandato di arresto quello di Ahmad Vahidi, ministro della Difesa del governo di Teheran dal 2009 al 2013 ed ex capo dei Guardiani della rivoluzione. Ruolo, quest’ultimo, ricoperto anche da Mohsen Rezai, candidato presidente alle elezioni iraniane nel 2009. Rezai ha sempre negato il suo coinvolgimento nei fatti di Buenos Aires.
Dopo aver letto l’elenco di questi nomi. Dopo aver atteso per vent’anni giustizia, immaginate il doloroso stupore delle famiglie delle vittime alla notizia della decisione del governo argentino di formare, all’inizio del 2014, una “Commissione per la verità” in accordo con le autorità di Teheran. Una commissione che avrebbe dovuto portare luce sui fatti del 1994. “Una cosa del genere – affermava sul Washington Post Luis Czyzewski, padre di Paola, uccisa a 21 anni dall’attentato terroristico – è come stringere un patto con qualcuno che accusi di aver commesso un crimine contro di te. Parlare di una commissione per la verità è una vergogna perché questa non è una commissione che la vuole”. A dar ragione a Czyzewski, la Corte suprema argentina che ha dichiarato il Memorandum di intesa tra Buenos Aires e Teheran incostituzionale. “L’organismo creato non si occupa delle vittime – si legge nella sentenza della Corte – anzi, letteralmente le esclude, disconoscendo il ruolo attivo che rivestono nei procedimenti esperiti dinanzi alla Commissione”. “Il problema fondamentale affonda le sue radici nella scarsa volontà di cooperazione dimostrata dal governo e dalla giustizia iraniani nel corso delle indagini svolte dopo l’attentato – scrive sul sito di informazione Sud AméricaHoy Marta Nercellas (articolo pubblicato in Italia dal Lindro) – lo affermano esplicitamente i giudici argentini, nel verdetto di cui stiamo parlando. Ma anziché esigere maggiore collabo- razione, l’accordo mette sullo stesso piano l’investigatore e l’investigato, ai quali si riconosce il medesimo status di co-protagonisti nello svolgersi della ricerca per la ricostruzione dell’attentato”.
La comunità ebraica argentina, che conta 250mila persone, si batte da anni perché le famiglie delle vittime abbiano finalmente giustizia. Molte sono le pagine oscure in questa storia. Addirittura nel 2012 il giudice Ariel Lijo ha chiamato al banco degli imputati l’ex presidente Carlos Menem, accusato di ostruzione alla giustizia, assieme ad alcuni tra i più alti funzionari di polizia e dei servizi di sicurezza argentini, al vertice delle indagini del caso Amia. Secondo il New York Times, Menem avrebbe ricevuto 10 milioni di dollari per coprire i legami tra l’Iran e l’attentato di Buenos Aires. Alla guida del paese dal 1989 al 1999, Menem ha negato ogni suo coinvolgimento. “Tutto ciò che vogliamo adesso è arrivare il più vicini possibile ad ottenere giustizia”, dichiarava al New York Times Adriana Reisfeld, presidente di Memoria Attiva, associazione che rappresenta i parenti delle vittime di via Pasteur. “Non possiamo permettere il caso Amia si chiuda e venga dimenticato”, la rivendicazione di Reisfeld, la cui sorella morì nell’esplosione. Il 18 luglio 2014 è caduto il ventesimo anniversario della strage di Buenos Aires. La memoria rimane viva ma per quanto ancora le fa- miglie dovranno invocare “justicia”?
Daniel Reichel da Pagine Ebraiche, agosto 2014