Sfiducia e voglia di ripresa
Settimana convulsa: ancora lancio di missili, combattimenti sempre più aspri a Gaza, la minaccia di rapimento di Hadar Goldin seguita dalla dichiarazione ufficiale della sua morte, accolta quasi con sollievo, la decisione unilaterale dell’esercito israeliano di ritirarsi, l’attentato a Gerusalemme, la minaccia di attentato a Tel Aviv e, finalmente, il cessate il fuoco di 72 ore, il giorno di Tishà be Av. La capacità di reazione e di ripresa degli israeliani è al solito sorprendente: mercoledì e giovedì i caffè e i ristoranti hanno fatto il pieno, le spiagge pullulavano di gente e il traffico era di nuovo impazzito. Tantissimi sono partiti per le vacanze mentre alcuni turisti, che avevano rinunciato al viaggio, si sono affrettati ad arrivare; anche all’Ulpan, da un giorno all’altro, sono stata costretta a mediare il livello di aria condizionata con una russa, due francesi, un giovanissimo e geniale americano della yeshivà di Hebron. Poi, venerdì mattina, ben prima della fine del cessate il fuoco, la doccia fredda dei 35 missili lanciati contro il Sud di Israele, dove il governo aveva dato alla popolazione l’indicazione, forse un po’ incauta, di tornare. Insomma, per tre giorni, è stato come se la tregua fosse stata scambiata per la pace, come se lo smantellamento dei tunnel e il ritiro dell’esercito da Gaza avessero di per sé risolto la situazione. Mentre la diplomazia falliva, la parola tornava nuovamente alle armi e la prospettiva si prefigurava sempre più fosca. È quasi impossibile dialogare con gli israeliani: anche quelli un tempo più aperti e disponibili sono asserragliati oggi in una posizione di difesa e intolleranza ma, soprattutto, di pessimismo e sfiducia nella possibilità di un cambiamento non affidato solo alla forza delle armi. E questa, forse, aldilà della conta drammatica di morti e devastazioni, è l’eredità più pesante di questo conflitto. Su entrambi i fronti. Smilitarizzazione di Gaza? Trattative con gli avversari? Allentamento sostanziale del blocco? Smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania? Due popoli e due stati? Gli obiettivi, un tempo praticabili, dell’opposizione israeliana, suonano oggi come slogan. Gli stessi forse che si sarebbero ascoltati a Kikar Rabin sabato sera, nella manifestazione “Changing course to peace”, vietata all’ultimo momento per motivi di sicurezza. Un gruppetto sparuto, con alcune parole d’ordine non condivisibili, fronteggiato da scalmanati avvolti nella bandiera israeliana, ha comunque sfidato il divieto.
Ci sono però molte ragioni per essere fiduciosi. La solidarietà massiccia, compatta e tangibile di tutto il paese, in primis, che si esprime non solo ai funerali dei soldati caduti – non è retorico dire che ognuno vive ogni caduto come parte della sua famiglia – ma anche in gesti concreti come il mercato, gremito di gente, ospitato venerdì scorso in un hangar del porto di Tel Aviv con la frutta, la verdura e i fiori prodotti dai kibbutzim di confine.
E poi l’indomita vivacità culturale di questo paese. Qualche novità, almeno per me. Il restauro del centralissimo quartiere di Sarona, ex colonia dei Templari tra il 1871 e 1942 quando, cacciati dagli inglesi, gli abitanti sono tornati in Germania o emigrati in Australia. Le 33 case basse con tetto a spiovente sono state adibite a quartiere militare e governativo fino agli anni ’80 quando il comune di Tel Aviv le ha individuato come zona di nuova espansione, prevedendone la distruzione, con l’eccezione di 10, da conservare come memoria storica. Ma la battagliera Nitza Smuk, già paladina della “città bianca”, soprattutto dei suoi esemplari Bauhaus, si è opposta strenuamente alla demolizione, ottenendo la salvaguardia e il restauro dell’intera area, del quale è però decisamente insoddisfatta, soprattutto per quanto riguarda la parte ambientale e l’organizzazione del verde. Gli oppositori alla conservazione, mi spiega, non erano solo imprenditori avidi di profitti, ma anche molti esponenti della municipalità, reduci della Shoah, ai quali l’idea di dedicare un quartiere ai tedeschi, verso i quali pure Israele era per tanti versi debitrice, era assolutamente insopportabile. Nitza ha ragione: Sarona restaurata sembra un po’ una “riserva”, come quella degli Shakers negli Stati Uniti. Le case, di scarso pregio architettonico con l’eccezione di qualche esemplare Bauhaus, tutte pulite e lustrate, ospitano per la maggior parte caffè e ristoranti. Dei 12 edifici destinati a spazi culturali, se ne sono salvati solo 5, tre dei quali utilizzati come succursale del Technion di Haifa. La corona di grattacieli minacciosi e protervi che la cingono, la fanno sembrare ancora più piccola e anacronistica.
Gli stessi grattacieli che assediano a Holon, a pochi km a sud di Tel Aviv, lo strepitoso Museo del Design progettato nel 2010 da Ron Arad, su cui torneremo. Un doppio nastro di ferro, le cui tonalità cromatiche virano dall’arancio al bruno grazie al diverso processo di ossidazione, fascia gli spazi espositivi celandone la natura stereometrica e si avvita verso l’alto vitalizzando il vuoto del patio. Un gesto di rottura, paragonabile in veemenza al Guggenheim Museum di Wright a New York o a quello di Gehry a Bilbao.
Tra qualche giorno, concluso il tempo previsto per l’Ulpan, dopo una visita a Umm El Fahen per incontrare l’infaticabile Said, animatore del centro dedicato alla cultura degli arabi israeliani, mi accingo a tornare a casa. Con rammarico. Un ebraico un po’ più fluente e soprattutto la condivisione di tempi così difficili mi hanno fatto sentire qui veramente a casa.
Adachiara Zevi, architetto
(15 agosto 2014)