Ticketless – Gita a Livorno
L’editoriale di Giovanni Belardelli sul “Corriere” del 14 agosto scorso (Sguardi assenti memorie labili) punta il dito contro la ritualità della nostra memoria. L’attenzione che teniamo viva per i genocidi del ‘900 “cala bruscamente di fronte a quelli che oggi si stanno verificando sotto i nostri occhi”. La crisi internazionale degli ultimi mesi ha riproposto la questione del doppio trattamento riservato alle vittime del presente e quelle del passato, adoperate come metro di paragone. Ricordo quando fu istituita dal governo Prodi un’apposita commissione dentro la quale furono coinvolti storici della seconda guerra mondiale insieme con superstiti della campagna di Russia, ex perseguitati razziali per giudicare crimini commessi oggi. In tempo di pace nessuno vede l’anomalia. Sotto il fragore delle bombe le contraddizioni vengono a galla.
Siccome è sempre bene che gli scandali saltino fuori sarebbe bene completare il ragionamento di Belardelli e aggiungere una postilla al suo editoriale. Diversi trattamenti subiscono anche le parole. È la definizione di “genocidio” che andrebbe messa a punto. Così com’è adoperata in questa estate 2014 molto temporalesca, la parola è esposta al fluttuare dei venti. Per esempio, l’idea che di genocidio possiede il sindaco di Livorno non si accorda con quella che propongono gli storici. Sarei cauto prima di accusarlo di antisemitismo e non invece di pressappochismo (le due cose in Italia spesso tendiamo a confondere). Il sindaco di Livorno a me ricorda la casalinga di Voghera, cara ad Alberto Arbasino che di ogni cosa parlava con sussiego perché aveva fatto una gita a Chiasso e sentito parlare di un libro. Potrebbe gentilmente uno dei tanti storici italiani che hanno prodotto volumi apprezzabili sui genocidi del Novecento spiegare al sindaco di Livorno, e non solo a lui, che per la strage di esseri umani in fuga davanti all’avanzata dell’Isis, più che per i morti di Gaza, è legittimo l’uso della parola “genocidio”?
Alberto Cavaglion
(20 agosto 2014)