Ragionando sull’Isis
e su una guerra in corso

vercelli1.     A cosa ci riferiamo quando parliamo di Isil, o Isis, il movimento combattente, composto da milizie sunnite, dai connotati dichiaratamente terroristici e dalle origini apparentemente oscure che, dopo alcuni anni di sostanziale indifferenza per parte della comunità internazionale, sta ora invece raccogliendo, sia pure tardivamente, un’attenzione crescente? Cerchiamo di fare un po’ di luce al riguardo, avendo già sottolineato che l’eco della rilevanza della sua azione fuoriesce dalla dimensione strettamente regionale (la Siria e l’Iraq, in particolare i territori della cosiddetta «mezzaluna fertile», quelli tra i fiumi Tigri ed Eufrate), per inserirsi nei mutamenti che stanno coinvolgendo il Medio Oriente e l’Africa centro-settentrionale. Intanto è bene vedere l’etimo della parola. Isil è l’espressione usata perlopiù dai mezzi di comunicazione americani per indicare, in quanto acronimo, l’ «Islamic State of Iraq and Levant», ossia lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Più semplicemente viene anche denominato con la contrazione Is («Islamic State»). La parola «Levante» (la parte dell’orizzonte laddove esce, ossia si leva, il sole) è una derivazione dalla mappatura coloniale europea e indica la grande area territoriale che comprende anche gli attuali Libano e la Siria. Più propriamente, il motivo per cui viene richiamata l’espressione Levante non é tanto per una questione di immediate ambizioni politiche, in sé peraltro piuttosto confuse, al di là degli slogan rutilanti e roboanti; semmai si ricollega al concetto di «Grande Siria», che a sua volta rimanda al rifiuto dei vincoli territoriali imposti dall’accordo Sykes-Picot, sottoscritto da Gran Bretagna e Francia del 1916, il quale permise, dopo la Prima guerra mondiale, di ridisegnare i confini del Medio Oriente, anche e soprattutto in ragione della caduta dell’Impero ottomano. Non è quindi un caso se sui media jihadisti si sia data molta enfasi all’eliminazione della linea confinaria tra Siria e Iraq, volendo con ciò indicare come la suddivisione europea di quell’area sia oramai definitivamente venuta meno, malgrado satrapi sanguinari come Saddam Hussein e la famiglia Assad si fossero impegnati a mantenerla, anche nel nome degli interessi di azionisti politici occulti, come gli stessi paesi occidentali. Per i sunniti (e gli sciiti) militanti nei gruppi radicali, infatti, non esistono Stati – espressione di frazionamento, di separazione, di divisione – ma la sola l’Umma, ovvero l’unione di tutti i musulmani che seguono la Sunna, la «tradizione». Parlare di confini è, per costoro, non solo un fatto privo di senso, intendendosi invece come parte di una totalità, quella musulmana, potenzialmente proiettata sull’intero pianeta, ma anche un atto di apostasia rispetto alla predicazione del Profeta, laddove il mondo unico e unito è traduzione terrena, negli ordinamenti secolari, del monoteismo assoluto. Per questo motivo, così come sulle mappe del movimento radicale sunnita si arriva persino ad includere il Nord Africa come territorio elettivo per una futura espansione, in molti sermoni condotti nelle moschee, nei conciliaboli pubblici e privati così come nelle adunate che ha promosso recentemente anche la Fratellanza musulmana in Egitto, si arrivano ad includere al-Andalus (ovvero la Spagna) e Roma. Al di sopra di tutto c’è però sempre l’ossessione per al-Quds, ossia Gerusalemme, eletta a luogo dello spirito assoluto, non quello della religiosità bensì della rivalsa universale, esercitata dai «giusti» contro l’iniquità universale. Il tema del martirio è infatti sempre relazionato con la città santa e con la riparazione dalle turpitudini di questo mondo, costituendo una sorta di triade ideologica indissolubile: disintegrazione del corpo nel nome del supremo sacrificio, acquisizione armata della città celeste usurpata e superamento delle diseguaglianze. Una sorta di anticipazione della dimensione paradisiaca promessa in virtù del sacrificio (letto come dono) di se stessi. La “riconquista” di Gerusalemme ha assunto così la natura di paradigma simbolico totalizzante, che raccoglie in sé il senso della lotta contro il «male» presente nel mondo. Va ben oltre la causa palestinese, con la quale il fondamentalismo musulmano intrattiene perlopiù un rapporto di mero opportunismo politico, sostenendola nella misura in cui registra un tornaconto politico di immagine e una presenza pressoché permanente sui media mondiali. Poiché gli ebrei, agli occhi del radicalismo islamista, sono i veri agenti della divisione, i soggetti che più di altri si adoperano per “scompaginare le carte”, per dividere i credenti (quelli autentici) e diffondere il virus della miscredenza. Tornando all’aspetto più strettamente linguistico, va detto che la Bbc e una parte della carta stampata hanno scelto un diverso acronimo, l’Isis. Il quale può essere tradotto come Stato islamico dell’Iraq e della Siria, oppure con la “s” che indica «Sham», dove al-Sham è il nome arabo di Levante, qualcosa di più vasto della singola Siria. Questo per ciò che riguarda l’uso nostro. In ambito arabo si fa invece ricorso ad un altro acronimo, “Daash” o “Daesh” a seconda della pronuncia, che deriva delle iniziali delle parole arabe, contrazione di «al-Dawal al-Islamiya fi Iraq al-Sham». In questo caso Sham è la Grande Siria, il Levante, o magari «Damasco», intendendo la città come espressione di tutta un’area geopolitica, amministrativa ma anche culturale, così come ancora oggi si ricorre alla parola   «Roma» per designare tutto l’Impero romano. Ancora una precisazione linguistica e terminologica: storicamente, Sham fu parola adoperata durante il regno dei califfi musulmani, a partire dal VII secolo e.v. per   comprendere la vasta e differenziata porzione di territorio compresa tra il Mediterraneo, l’Eufrate, l’Anatolia e l’Egitto. Che è poi la regione in cui ha prevalso e si è consolidato l’Islam sunnita, prima di allargarsi al resto del Nord Africa, dell’Asia e in generale nel mondo in cui è a tutt’oggi presente. Quindi, al-Sham indica un’entità che negli schemi politici e culturali dell’islamismo radicale è esistito fino a quando Francia e Gran Bretagna si misero d’accordo per creare degli Stati in Medio Oriente, generando le fittizie linee del confine di Libano, Siria, Iraq, Giordania e, ovviamente, «Palestina». Quest’ultima in realtà incorporata, e quindi divisa, nei Sangiaccati (le unità amministrative ottomane) in cui era sezionata fino al 1918, quando i britannici fecero il “miracolo” di trasformarla, passo dopo passo, in un’entità geografica a sé stante.

2.     Fin qui la storia politica dell’etimo, che pure qualcosa significa, se le parole non sono usate a caso. Poi viene il resto. Che è la cronaca di questi ultimi tempi. Da circa due anni, dopo le ondate di piena della «Primavera araba» e il loro riflusso impolitico, in Siria l’Isis (useremo questo acronimo per comodità) combatte contro le truppe lealiste, quelle del governo di Bashar al-Assad, l’uomo (ancora) al potere a Damasco. A questo conflitto aperto, dichiarato, che ha diviso e fazionalizzato il Paese l’Isis ha poi collegato una lotta intestina, non meno violenta, contro quelle componenti ribelli (il fronte   avverso al regime del clan Assad è sempre stato piuttosto variegato, costituendo una coalizione piuttosto che un organismo unitario) che considera poco o nulla radicali. Ovverossia,   quei soggetti che non intendono farsi assoggettare alla sua volontà. Di fatto la guerra civile in corso in Siria dal 2011-2012 vede concorrervi tre grandi gruppi: l’esercito fedele alla famiglia al potere e ai suoi non pochi sodali, sostenuti dalla Russia; le milizie dell’Isis, variamente finanziate, anche dai wahhabiti dell’Arabia Saudita e dal Qatar; le organizzazioni armate sunnite autonome. Il conflitto si è quindi esteso (per meglio dire: si è raccordato al confronto tra sunniti, sciiti e curdi) all’Iraq. Un paese, quest’ultimo, già di per sé diviso in tre grandi tronconi ma che adesso, venuto meno Saddam Hussein, esauritasi la robusta – e onerosissima – presenza militare americana e manifestatasi la fallimentare gestione dell’era del premier sciita al-Maliki, vive i sussulti delle violenze interetniche e confessionali. Su di esso pesano i molti anni d’embargo economico, due guerre contro le coalizioni occidentali (1991 e 2003), il lungo e dissanguante conflitto con l’Iran, tra il 1980 e il 1988, le politiche di “debatizzazione” delle amministrazioni pubbliche volute dalla presidenza Bush (il Ba’ath era il partito-regime di Hussein) e perseguite senza però un progetto politico chiaro. Proprio dalla decomposizione delle strutture baatiste presenti nell’esercito, ossatura dell’egemonia sunnita in Iraq, è nata una formazione come l’Esercito dell’ordine sufi Naqshabandi, sotto la guida di Izzet al-Douri, già tra gli esponenti dell’establishment di Saddam Sono i suoi miliziani ad avere garantito la presa, nel giro di poche ore, della città di Mosul. L’Isis, che ambisce a rappresentare la corposa minoranza sunnita, alla quale si contrappongono gli sciiti, controlla oggi grosso modo un terzo del territorio iracheno. I sunniti, come si diceva, avevano in mano le leve del comando politico iracheno ai tempi del dittatore, deposto dagli americani nel 2003. Poi le hanno perse, a favore dei loro avversari. I quali si sono però rivelati incapaci di praticare l’unica strada che sarebbe stato possibile percorrere, una gestione concordata di una pronunciata autonomia amministrativa, sotto l’egida di Washington e degli altri grandi attori internazionali. Gli stessi Stati Uniti si sono manifestati incongrui nella peraltro difficile scelta dei loro interlocutori, optando infine per dei cavalli da corsa che si sono rivelati, alla resa dei conti, dei banali ronzini, I curdi, dislocati nel nord, pensano da sempre alla costituzione di uno Stato indipendente, monoetnico, ed il loro attivismo di questi mesi, con i guerriglieri Peshmerga (letteralmente «coloro che sfidano la morte», già presenti dai primi anni Venti, con il parallelo sviluppo del movimento nazionalista curdo) si inscrive dentro tale progetto di frammentazione territoriale. Anche qui va fatta una precisazione: i Peshmerga sono sia combattenti del gruppo pathani (affiliato all’etnia pashtun), presenti in Afghnistan, che gli appartenenti al Partito democratico del Kurdistan. Con il nome Peshmerga, infatti, si autodesignano le formazioni armate del Governo regionale del Kurdistan, nella regione semiautonoma del Kurdistan iracheno. Duecentomila elementi in tutto, tra i quali non poche donne combattenti che vantano pari diritti, ora sostenuti, sia pure con qualche riluttanza, dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. Tra parentesi, nella regione gli Usa hanno mandato circa quattrocento consiglieri militari, mentre l’Europa si appresta ad ulteriori forme di aiuto, pur temendo, gli uni e l’altra, che il tutto potrebbe poi essere piegato a obiettivi che non sono solo quelli di contrastare gli islamisti. Lo “spettro” di uno stato curdo, esteso da Erbil fino a Kirkur, area ricca di petrolio, inquieta enormemente gli attuali partner dei Peshmerga. Queste forze, peraltro, si sono in passato scontrate con i militanti di altri gruppi, tra i quali quelli dell’Unione patriottica del Kurdistan, del Partito dei lavoratori del Kurdistan e con i miliziani della formazione islamista Ansar al-Islam, un gruppo curdo musulmano. Va ricordato che i curdi nel mondo sono più di una trentina di milioni (alcuni stimano che la cifra si aggiri addirittura intorno ai quaranta milioni), per buona parte collocati nell’Asia sud-orientale (disseminati tra Iran, Iraq, Turchia, Siria, Azerbaigian, Armenia, Georgia, Afghanistan, Libano, Giordania) e in misura di molto minore nella diaspora occidentale. Sono il quarto ceppo medio-orientale, in termini di dimensioni, dopo gli arabi, i persiani e i turchi, culturalmente accomunati dal ricorso alla lingua curda, nelle sue due diverse varianti e nei molti dialetti. Una lingua che appartiene al sottogruppo occidentale del ramo iranico delle lingue indoeuropee. Sul piano religioso sono interconfessionali, praticando il sunnismo, il cristianesimo, lo yazidismo e l’alevismo (una derivazione dell’Islam). Dinanzi all’evolversi catastrofico del conflitto contro l’Isis in queste ultime settimane alcune unità peshmerga sono state incorporate, di malavoglia, creando anche molte tensioni, nella Guardia nazionale irachena, avendo come base la città di Mosul. Di fatto è risaputo come la fedeltà di questi gruppi non vada al governo centrale di Baghdad bensì al progetto di costituzione di uno Stato nazionale unitario curdo. La partecipazione ai combattimenti è, peraltro, un’abitudine per i Peshmerga, da sempre attivi nelle diverse vicende belliche che hanno accompagnato la recente storia dell’Iraq, dalla guerra contro l’Iran alle due guerre del Golfo (adoperandosi contro l’odiato Saddam Hussein).

3.     Torniamo all’Isis, la cui natura, per così dire, è particolare, presentandosi da subito non come gruppo, o fazione, bensì come «Stato». Benché sia un’organizzazione eclettica, le cui fortune sono dipese non poco dall’ingresso, nelle sue file, di molti militari iracheni, che oltre a conferire il know-how combattentistico hanno anche assicurato il controllo di depositi di armi, munizioni e veicoli, ha tuttavia una storia a sé. Non è tuttavia l’unico soggetto militante (e bellicoso) in circolazione. Già si è avuto modo di citare l’Esercito dell’ordine sufi Naqshabandi, all’interno al quale appartengono un rilevante numero di esponenti delle forze armate di antica e solida fedeltà baatista, elementi della ex Guardia repubblicana (l’élite militare dei tempi di Saddam Hussein) e diversi ufficiali non più reclutati, ovvero non riciclati, nelle nuove milizie governative costituite a partire dalla caduta del rais di Baghdad nel 2003. Una scelta, quest’ultima, rivelatasi un errore strategico, che ha alimentato un’area del risentimento e della rivalsa permanenti, la quale si è poi abbattuta come un’onda di piena contro i nuovi governi. Altri gruppi sono quelli composti da fazioni islamiste come Jaish al-Islam, Kataeb al-Islam, Kataeb Thawrat al-Ishrin, Ansar al-Sunna. La loro politica è basata sul calcolo dell’opportunità temporanea, facendo e disfacendo alleanze e accordi in base alle convenienze del momento. Ad essi, e contro di essi, si ricollega poi la presenza dei combattenti delle tribù e dei clan che ritengono che il governo di Baghdad sia un’entità usurpatrice, avendone subito la violenta repressione dopo avere manifestato pacificamente le proprie ragioni negli anni trascorsi. Su tutt’altra trincea sono invece disposte le formazioni sciite, come l’Esercito di Ed-Mahdi, Saraya al-Salam Faylaq Badr, Assayeb Ahl al-Haqq. Attualmente l’Isis-Daesh, con una forza combattente stimata intorno a 60mila uomini (ma il “nocciolo duro non dovrebbe superate le diecimila unità), occupa stabilmente una porzione di territorio, divisa tra Siria e Iraq, delle dimensioni del Belgio, anche se connotata dalla discontinuità amministrativa, politica e militare. La pressione delle formazioni armate che vi si contrappongono, a partire soprattutto da quelle curde, sostenute, insieme alle unità regolari dell’esercito iracheno, dagli interventi aerei americani, fa sì che la fisionomia geografica del cosiddetto «Califfatto» sunnita muti nel corso delle settimane se non dei giorni. L’obiettivo, in sé ambizioso, è di riuscire a garantirsi, nel volgere di qualche mese a venire, un’autonomia economica in grado di supportare la campagna militare in corso. A tale riguardo, tre sono le prede più ambite. La prima è costituita dalle numerosissime risorse petrolifere e di gas naturali. Attualmente l’Isis riesce a fornire – secondo le stime maggiormente accreditate – una produzione quotidiana di circa diecimila barili, a fronte della capacità produttiva dei pozzi controllati dalle milizie di almeno tre volte tanto. Non è un volume di attività che preoccupi eccessivamente. Men che meno permette di pensare in termini di autosufficienza. I grandi giacimenti sono infatti a sud dell’Iraq, dove le milizie radicali non possono mettere piede. Almeno che il quadro della situazione non subisca un drastico e repentino mutamento, cosa però che, al momento attuale, risulta assai improbabile. Il problema di fondo per l’organizzazione è che ciò che per essa costituisce tra i fattori di maggiore reclutamento, la mobilità e la combattività, è anche tra quanto di meno si presta a stabili attività estrattive. Ancor meno ad investimenti imprenditoriali, più o meno continuativi, senza i quali qualsiasi deposito di ricchezza è inerte. Il secondo obiettivo è, invece, ben più concreto, ossia immediato, e rinvia al controllo delle fonti idriche. Il 7 agosto, infatti, gli uomini dell’Isis hanno occupato la diga di Mosul, sul fiume Tigri, quarantacinque chilometri a nord dell’omonima città, da essi già conquistata due mesi prima. Si tratta dell’impianto idroelettrico più rilevante dell’Iraq. Inaugurato nel 1986, con una potenza installata di 1052 megawatt, ha un bacino di ben undici miliardi di metri cubi d’acqua dolce, una capacità energetica annuale di 3.420 milioni di chilowatt ed un’altezza complessiva di più di cento metri. Ancor più significativo il fatto che essa, fino alla sua espropriazione da parte islamista, garantisse il regolare e continuativo rifornimento di energia elettrica a tutto il Kurdistan iracheno (nel mentre altre province del paese si trovano oramai da molto tempo a dovere subire continui razionamenti e blackout). I miliziani neri, contrastati inefficacemente dai Peshmerga, non a caso – infatti – hanno da subito garantito ai tecnici impegnati nella gestione degli impianti che avrebbero pagato loro gli stipendi. A patto, naturalmente, che rispondessero ai loro ordini. Una riprova che il controllo dei regimi idrici è per tutti gli attori in gioco una posta strategica. Nel suo insieme l’Iraq e la regione nord-orientale della Siria, dipende da sempre da due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, garanti della quasi totalità dei rifornimenti d’acqua dolce disponibile in superficie. Quanto alle falde acquifere, il discorso è diverso. Ma le prospezioni e i carotaggi rendono, al momento, poco o nulla vantaggioso pensare, tecnicamente e economicamente, di procedere allo sfruttamento di quella che potrebbe invece, in futuro, divenire una risorsa aggiuntiva. La questione idrica nel territorio della regione, condivisa in un rissoso condominio dalla Turchia, dalla Siria e dall’Iraq, è poi aggravata dalla politica del primo paese, che ha costruito un sistema di dighe e di sistemi di irrigazione. generando una serie di contenziosi infiniti con i vicini. E si confronta con una siccità che da almeno un decennio si accompagna a guerre e guerricciole, con due picchi negativi nel 2008 e nel 2014, soprattutto in Siria. Il difetto di acqua potabile certa condiziona quindi la vita di milioni di persone, le loro attività agricole e industriali, le prospettive di esistenza. L’avanzata dell’Isis ha comportato la presa di una parte delle dighe e dei sistemi idroelettrici presenti sul territorio. A febbraio i miliziani avevano occupato la città di Fallujah, nel governatorato iracheno di Anbar, in prossimità della Siria. Ad aprile avevano quindi conquistato il controllo della diga limitrofa, quella di Nuaimiyah. Avevano pertanto bloccato otto delle dieci chiuse, causando volutamente l’allagamento dei territori a monte, per impedire all’esercito iracheno di operare (come poi è puntualmente successo), allagando e sommergendo Abu Ghraib ed innescando una nuova ondata di profughi. A valle, da Kerbala fino a Najaf, le condotte sono invece rimaste a secco e con esse i rubinetti, originando innumerevoli disagi per milioni di persone. Il passo successivo è stata la conquista della diga di Samarra, sul fiume Tigri, a occidente di Baghdad. Mentre rimane in sospeso, per così dire, il tentativo, non riuscito, di raggiungere la diga di Haditha, sull’Eufrate, di cui regola la portata a valle, garantendo quasi un terzo dell’energia elettrica necessaria all’intero Iraq. Se i jihadisti si assicurassero tale obiettivo potrebbero condizionare l’esistenza dell’intera popolazione di Baghdad, minacciando eventualmente l’inondazione della valle in cui la capitale irachena si trova. Infine, un terzo target è dato dal controllo dei depositi di cereali, a partire dal grano. Nella loro avanzata di queste ultime settimane gli uomini dell’Isis si sono assicurati gli ammassi pubblici delle zone di Kirkur, Nineva, Salaheddin, nelle province più fertili dell’Iraq, laddove si arriva a produrre tra un terzo e la metà del grano nazionale. Di fatto – ma anche qui si tratta più di stime che non di dati certi e comprovati – gli insorgenti parrebbero potere già da subito fornire la farina che occorre alla popolazione caduta sotto il loro controllo. Una questione capitale per alimentare il necessario consenso alla propria amministrazione. Due terzi della popolazione irachena, infatti, dipende in tutto e per tutto dagli aiuti governativi per sopravvivere. E senza di essi, ovviamente indisponibili nelle zone occupate dagli jihadisti, lo spettro della fame si farebbe certezza qualora altri non dovessero intervenire.

(segue)

Claudio Vercelli

(24 agosto 2014)