J-Ciak Biennale, da Gitai al caso “Villa Touma”
La gran giostra della Biennale di Venezia anche quest’anno ci porta in dono qualche J-delizia. Cinema d’autore, of course. Pensoso, drammatico, talvolta tenero e attento alla poesia del quotidiano, che da parte israeliana sorprende per la carenza di attualità, ma sempre da soppesare con occhio attento.
Il primo protagonista di questa carrellata è senz’altro Frederick Wiseman, filmaker statunitense che, assieme alla montatrice Thelma Schoonmaker, si è aggiudicato il Leone d’oro alla carriera.
Documentarista strepitoso, dal 1967 Wiseman ci racconta la vita nelle istituzioni sociali del nostro tempo. L’ospedale psichiatrico, le compagnie di balletto, il tribunale minorile, la palestra di boxe, le scuole … Il suo occhio attento ha spaziato con minuziosa poesia, fino alle sale della prestigiosa National Gallery, presentato all’ultimo festival di Cannes, cogliendo sempre dettagli inattesi e scorci inconsueti. Un’interesse, quello di Wiseman, profondamente radicato nella sua infanzia bostoniana in cui – come ha ricordato lui stesso – “l’antisemitismo era ovunque” e la discriminazione sempre dietro l’angolo.
Eccentrico, per certi aspetti, è anche lo sguardo dell’israeliano Idan Hubel che presenta in concorso “Pat Lehem” (Daily Bread, Israel, 18’). Hubel, già presente all’edizione 2012 con “Menatek HaMaim” (The Cut-Off Man), malinconico ritratto di un uomo che per lavoro taglia l’acqua alle famiglie insolventi, questa volta porta a Venezia un corto ispirato a un racconto di Berdyczewsky (1865-1921), popolare scrittore e giornalista di origine ucraina che scrisse in ebraico, ucraino e tedesco. La storia è minimale: un bambino ruba della cioccolata e per timore di essere punito dalla matrigna scappa di casa. Ma quando scende la notte la paura inizia a farsi sentire, sarà guidato da una scintilla.
Fuori concorso Amos Gitai, uno dei beniamini del Festival del cinema di Venezia, propone “Tsili” (Israele, Russia,Italia, Francia, 88’) anch’esso basato su un’opera letteraria, l’omonimo romanzo del grande Aharon Appelfeld. Il film racconta di Tsili, giovane e semplice ragazza ebrea, che nascondendosi nei boschi riesce a sfuggire alla deportazione che colpisce la sua famiglia e dopo la guerra vaga in cerca di una nave che la porti altrove. Interamente girata in yiddish, la storia rispecchia quella dello stesso Appelfeld, anch’egli sopravvissuto alla Shoah rifugiandosi nella foresta.
A guidare Gitai, come lui stesso afferma, le parole di Appelfeld a Philip Roth: “La realtà dell’Olocausto supera ogni immaginazione. Se io fossi rimasto fedele ai fatti, nessuno mi avrebbe creduto. Invece, scegliendo una ragazza, un po’ più grande di quanto fossi io all’epoca, ho sottratto la ‘storia della mia vita’ alla morsa della memoria e l’ho consegnata alla creatività. Così, la memoria non è più l’unica proprietaria”.
Di tutt’altro genere Mita Tova (The Farewell Party, Israele, Germania, 93’) presentato da Sharon Maimon e Tal Granit alle Giornate degli autori. Il film, basato sulla sceneggiatura delle stesse registe che aveva spuntato il Best Pitch Award alla Berlinale di due anni fa, racconta di un gruppo di amici che in una casa di riposo a Gerusalemme costruisce una macchina per l’eutanasia. L’idea è di aiutare un amico malato terminale, ma la voce di sparge e ben presto s’impone una scelta. Il film, dicono le registe, “fa i conti con la separazione. Separarsi da chi si ama, separarsi da se stessi, separarsi dalla vita e il diritto di scegliere come concluderla” e ciò significa affrontare anche che “quando il corpo comincia ad abbandonarci, ma la mente rimane lucida, l’auto-ironia e lo humor restano il modo migliore per fare i conti con l’idea della morte”.
Impossibile non ripensare a “Le invasioni barbariche” del canadese Denys Arcand che nel 2003 si cimentò con garbo ironico con il tema della dolce morte facendo rapidamente incetta di premi (incluso l’Oscar al miglior film straniero l’anno) o a il “Mare dentro” di Alejandro Amenabar con un meraviglioso Javier Bardem. Ma l’ambientazione è curiosa e la storia promette bene.
Infine, alla Settimana della critica Suha Arrafpresenta “Villa Touma” (85’), storia di tre aristocratiche sorelle di Ramallah che rifiutano di accettare la realtà d’Israele e vivono di nostalgie rinchiuse nella loro villa. A ribaltare la situazione, l’arrivo di una nipote da dare in sposa e di cui occuparsi.
Non è un caso se nella parentesi non figura il paese di origine. Il film di Arraf è stato infatti al centro di un brutto caso. Realizzato per tre quarti con un finanziamento pubblico israeliano, era stato presentato a Venezia dalla regista come palestinese. Da cui la levata di scudi del ministro della Cultura Limor Livnat, dell’Israel Film Fund e di parte dell’opinione pubblica che avevano chiesto la restituzione dei soldi.
Suha Arraf si era trincerata dietro un assoluto no comment. Finché pochi giorni fa in un lungo intervento su Haaretz ha annunciato la scelta, a suo dire di compromesso, di presentare il film senza indicarne il paese di appartenenza. “Sono araba, sono palestinese e sono cittadina dello Stato d’Israele – dice la regista –. Ho il diritto di sottolineare la mia nazionalità quando presento il mio film al mondo e non c’è legge nello Stato d’Israele che mi proibisca di farlo. Per quanto mi riguarda, l’identità di un film è quella del suo creatore”.
“Lo Stato d’Israele – continua – non ci ha mai accettato come cittadini con pari diritti. Dal giorno in cui è nato, siamo stati marchiati come il nemico e fatti oggetto di discriminazione razziale in tutti i settori della vita. Perché dunque ci si aspetta che rappresenti Israele con orgoglio? In quanto filmaker divento automaticamente una dipendente del dipartimento diplomatico del ministero degli Esteri?”. E ancora, “La minoranza palestinese in Israele ha il diritto all’autonomia culturale. Abbiamo il fondamentale diritto non solo di fare film che riflettano la nostra identità culturale ma anche di definirli come tali. Se lo Stato d’Israele si considera democratico e pluralista, deve consentirci questa libertà”.
Quanto alla questione dei fondi pubblici, Arraf si domanda per quale motivo tanti film realizzati da “ebrei israeliani” con fondi europei siano invece identificati tranquillamente con Israele. “E’ mai venuto in mente a qualcuno, al ministero della Cultura tedesco, di sostenere che il film di Shmuel Maoz ‘Lebanon’ era tedesco solo perché fondazioni tedesche avevano provveduto per il 70 per cento al suo finanziamento?”.
Parole di fuoco, che certo non contribuiscono a rasserenare gli animi. Ma hanno il merito di rilanciare a chiare lettere un dibattito finora appena sussurrato e di riportarci all’aspra realtà mediorientale in una Biennale che, sotto questo aspetto, appare un po’ sospesa.
Daniela Gross
(28 agosto 2014)