L’Isis e la guerra in corso / 2
Se si guarda la cartina intercontinentale della diffusione del radicalismo islamico di matrice jihadista, quello oggi più dirompente, si ha un quadro discontinuo ma a tinte forti. Da ovest ad est le aree di maggiore tensione (senza contare gli innumerevoli focolai di crisi, che sono presenti ovunque un certo modo di intendere l’identità musulmana in termini militanti intercetti e rappresenti, o ambisca a rappresentare, sia istanze separatiste sul piano territoriale che, più in generale, le molteplici contrapposizioni sociali così come il disagio economico) riguardano il Mali centrale e l’area nord occidentale del Niger, dove sono presenti le formazioni che si richiamano ad al-Qaeda del Maghreb islamico; seguono i violenti e potenti Boko Haram, nella Nigeria settentrionale; si va poi in Libia, dove la decomposizione dello Stato gheddafiano si sta traducendo in una lotta tra una miriade di gruppi, tra i quali spicca Ansar al-Sharia. Sempre in Libia, per la precisione a Bengasi, alcune milizie hanno proclamato poche settimane fa la nascita di un improbabile “califfato”, sulla scorta di quello dell’Isis. Nell’Africa orientale e nel Corno d’Africa quel che resta della Somalia (impossibile da definire come Stato unitario, neanche oramai nella finzione cartografica) vede gli Shebab particolarmente attivi, nell’ampia regione di Mogadisco, con la forte tentazione di sconfinare in Kenia e, quindi, a Nairobi. Lo Yemen, andando nella penisola arabica, è interessato a sua volta dalla massiccia presenza di al-Qaeda, così come la Siria e l’Iraq, dove l’Isis è oramai la forza dominante sul campo. Un’ultima area critica è quella afghana, dove sempre al-Qaeda difende la sua presenza soprattutto nel nord e nel sud Waziristan. L’elenco è, naturalmente, di per sé non solo incompleto ma anche discutibile. A partire dal rinvio al nome stesso di al-Qaeda, struttura network più che organizzazione dai tratti definiti, che ha costituito il cappello per entità, gruppi e soggetti che hanno poi assunto un profilo autonomo. Peraltro, come già si è avuto modo di sottolineare, l’islamismo radicale di estrazione jihadista ha fatto dell’estrema mobilità operativa, della capacità di adattamento a situazioni diverse, del sostanziale informalismo delle sue filiere, così come dell’ideologia “transnazionale” e “anti-statalista” i suoi autentici punti di forza. Di qui a dire che rimanga sempre uguale a se stesso – quindi – ne corre. Poiché la sua vera forza sta non nell’essere un movimento globale ma un modo di presentarsi della politica, in forma fluida, combattente, aggressiva e prevaricatrice nell’età della globalizzazione. Se si pensa al jihadismo come ad un residuo del passato, una scoria di ciò che è stato, evidentemente non si ha in chiaro quale sia la natura del presente e che cosa, in prospettiva, possa riservare il futuro. Non di meno, se si va oltre i movimenti organizzati presenti sulla “piazza” internazionale, oggetto di attenzioni non può non essere lo Stato del Qatar, tra i patrocinatori del radicalismo sunnita (dai Fratelli musulmani, passando per Hamas e lo stesso Osama bin Laden per arrivare all’Isis) ma anche alleato degli Stati Uniti, ai quali lascia a disposizione l’uso della base di al-Udeid, sito strategico per controllare l’intero Oceano indiano, la Russia meridionale e l’Asia. Da Washington Doha ha acquistato forniture militari per quasi undici miliardi di dollari. Lo stesso emiro Tamin bin Hamad al Thani è però tra i finanziatori del processo di destabilizzazione del Mali e regista, neanche troppo occulto, di Hamas, dopo che questa ha perso buona parte dei suoi abituali interlocutori in Egitto e Siria. Il Qatar aveva peraltro sostenuto la Fratellanza musulmana quando questa era andata al potere al Cairo, rinforzando quindi Hamas. Ciò facendo si è attribuito, mantenendolo a tutt’oggi, il ruolo di referente privilegiato del movimento islamista a Gaza, soprattutto dal momento in cui il generale al-Sisi ha interrotto qualsiasi sostegno a suo favore. Il Qatar ha antichi attriti con l’Arabia Saudita wahhabita, a sua volta sponsor di movimenti violenti e terroristici, e guarda con ostilità agli sciiti dell’Iran. Questo, ed altro ancora, per rendere conto di quanto sia complessa, e stratificata, la situazione nell’intera area MeMo, Mediterraneo-Medio Oriente, e di come sia molto difficile risolvere conflitti di ruolo e d’interesse, usando la spada e dividendo il giusto dall’ingiusto in un colpo solo, pensando magari di recidere di netto tentacoli mutevoli, che non appartengono ad una sola testa.
5.
Detto questo, per tornare sui passi della riflessione che si era avviata rispetto all’Isis, alla sua natura e alle sue origini, a cosa dobbiamo ascrivere l’una e le altre? Tre figure primeggiano, a riguardo. Tutte e tre sono coinvolte, sia pure a vario e diverso titolo, ai peggiori atti di terrorismo internazionali di questi ultimi due decenni, a partire dagli attacchi dell’11 settembre 2001. Il primo del terzetto è, ovviamente, Osama bin Laden, di origine saudita, a capo di al-Qaeda fino alla sua uccisione da parte degli americani in Pakistan il 2 maggio 2011; il secondo è Ayman al-Zawahiri, medico egiziano succeduto a bin Laden; il terzo, infine, è Abu Musab al-Zarqawi, di origine giordana, che nella guerra condotta dai mujaheddin, le milizie islamiste finanziate dall’Occidente, ed in particolare dagli Stati Uniti, contro l’Unione Sovietica, la quale dal 1979 aveva occupato l’Afghanistan, si era rivelato un deciso competitore e uno strenuo rivale di bin Laden. Nel 2000, prima che le Twin Towers venissero abbattute, al-Zarqawi, all’interno della galassia dei movimenti islamisti – che avevano nel frattempo affilato le armi, avendo combattuto non solo in Afghanistan ma anche in Algeria, in Bosnia, nel Sudan, nel Caucaso meridionale oltre che in un buon numero di conflitti “minori” – aveva deciso di dare corpo ad un gruppo che si differenziasse dagli obiettivi e dalla tattica di al-Qaeda. Se quest’ultima era nata sulla base di uno specifico progetto, il costituire una milizia internazionale in grado di contrastare la presenza occidentale sul territorio musulmano, il Dar al-Islam, ponendosi così in rotta di collisione con l’esperienza della Prima guerra del Golfo (agosto 1990-febbraio 1991), quando circa mezzo milione di soldati appartenenti all’alleanza occidentale aveva preso le mosse dall’Arabia Saudita per obbligare Baghdad ad abbandonare il Kuwait da poco occupato militarmente, per al-Zarqawi il discorso era invece diverso. Si trattava, in questo caso, di intervenire direttamente dentro gli equilibri interclanici e multiculturali dell’Iraq di Saddam Hussein, il cui regime risultava indebolito dalla secca sconfitta del 1990. Il Paese era infatti governato dalla minoranza dei sunniti (più di un terzo dell’intera popolazione), benché fosse composto da una maggioranza sciita e potesse contare su una robusta minoranza curda, perlopiù intenzionata alla secessione territoriale. Già una quindicina d’anni fa, precorrendo le suggestioni a venire, al-Zarqawi predicava la necessità di dare corpo ad un califfato, registrando la crisi nella quale si dibattevano molti stati arabi e musulmani. Benché la confusione abbia da allora avuto sempre la meglio su un progetto politico dai tratti invece ben definiti, rimane il fatto che dietro questo obiettivo, tanto galvanizzante proprio perché circonfuso di un’ideologia sospesa tra il revanscismo (rendiamo la pariglia a Saddam, facendogliela pagare, in quanto usurpatore del potere) e l’adamitismo paradisiaco di certe promesse (con il califfato tornerà il tempo dell’oro per i “veri credenti”), si raccolsero una schiera di elementi disposti a dare corso a quella che – altrimenti – sarebbe rimasta solo un’intenzione allo stato nascente. Naturalmente, il califfato islamico doveva essere rigorosamente sunnita. Su questo nessuno metteva in discussione l’assunto. Semmai ci si scagliava contro Saddam Hussein in quanto satrapo, traditore della causa musulmana e così via. Più in generale, la lotta contro la cosiddetta apostasia avrebbe comunque implicato, con il trascorrere del tempo, uno sguardo d’orizzonte ben più ampio di quello consegnato al solo territorio iracheno. Per gli ideologi al servizio di al-Zarqawi si trattava di avviare un processo progressivo, dagli effetti cumulativi, per cerchi concentrici, ovvero in costante estensione, in ragione del quale si sarebbe realizzata una vera e propria strategia della tensione islamista. Attraverso l’attacco deliberato, scientificamente pianificato ai punti nodali (e fragili) degli Stati musulmani presi di mira di volta in volta, se ne sarebbero dovute indebolire le difese, non solo militari ma anche e soprattutto di legittimazione ideologica. Si trattava della teorizzazione di una vera e propria azione terroristica sistematica, al cui centro vi era, come da sempre in questi casi, un obiettivo preciso, ossia la popolazione civile, la quale andava “alienata”, separata dai poteri costituiti, verso i quali avrebbe dovuto nutrire una sfiducia crescente, a causa dell’incertezza sempre più forte che le violenze avrebbero ingenerato e quindi diffuso. Alla conclusione di questo processo, in parte militare in parte politico, si sarebbero dovute creare delle aree di persistente violenza, ossia delle regioni sottratte progressivamente al controllo delle autorità centrali, nelle quali i miliziani islamisti si sarebbero mossi come pesci dentro il grande corso d’acqua. Rispetto a questa prospettiva non era secondaria la considerazione per la quale, plausibilmente, come poi in effetti è successo, una parte delle truppe degli eserciti arabi avrebbe defezionato, passando prima o poi, armi e bagagli, con la controparte. Ai civili era offerta come unica contropartita la sottomissione ai nuovi signori. L’invasione americana dell’Iraq fu, oggettivamente, un acceleratore di questo processo. Non in sé, ma poiché sprovvista di un’intelaiatura politica capace di sostituire, al despota, ben presto deposto, autorità sufficientemente autorevoli, legittimate e quindi seguite dalla maggioranza della popolazione. Già nel 2003, poco tempo dopo l’arrivo degli statunitensi a Baghdad, il gruppo di al-Zarkawi si adoperò quindi nella pratica del terrorismo selettivo, facendo esplodere un’autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf, durante la preghiera del venerdì. Tra i tanti fedeli sciiti deceduti vi era, e non a caso, l’ayatollah Muhammad Bakr al-Hakim, uno dei pochi leader spirituali e civili che avrebbero potuto garantire una leadership moderata al Paese, oramai attraversato da una latente guerra civile che si sarebbe fatta manifesta nel giro di pochissimo tempo.
6.
Negli anni gli attentati proseguirono quindi con costanza, patrocinati dal gruppo Ansar al-Islam (gli «Ausiliari dell’Islam», nel senso di suoi indefessi servitori) e da Jamat al-Tawhid wa al-jihad («Gruppo per l’Unità [di Dio] e la guerra santa»), quest’ultimo destinato a costituire, nel corso del tempo, il nucleo fondante dell’Isis. Già nel 2004 al-Zarqawi ribadì, malgrado alcune differenze ideologiche e tattiche di fondo, la sua vicinanza con al-Qaeda nominando il suo gruppo «al-Qaeda in Iraq» (AQI). Nonostante la differenza di vedute, l’affiliazione garantiva infatti vantaggi a entrambe le parti. Il nome costituiva una sorta di brand di “successo”, destinato a valorizzare chi se ne impossessava, pro domo sua; per bin Laden era la garanzia, in sé però piuttosto incerta, come l’evoluzione delle cose si sarebbe poi incaricata di dimostrare, di potere affermare che la sua organizzazione-network fosse presente in Iraq e combattesse quindi contro gli americani. Per l’uno e per l’altro si trattava, in tutta evidenza, di un matrimonio d’interessi, destinato a sciogliersi non appena fossero venute meno alcune premesse. Le quali, in genere, sono costituite dalla scomparsa dei principali protagonisti, fatto che agevole le svolte repentine. Il 7 giugno 2006 forze congiunte americane e giordane colpirono al-Zarqawi, che morì, secondo le versioni più accreditate, a causa delle ferite riportate. Il suo posto fu quindi preso da Abu Omar al-Baghdadi, a sua volta ucciso poi nel 2010, e quindi sostituito da Abu Bakr al-Baghdadi. Quest’ultimo, quando nel 2011 la situazione siriana inizia a precipitare, propugna e poi realizza la creazione di una filiale locale di al-Qaeda. Nel gennaio del 2012 vede quindi la luce Jabat al-Nusra, conosciuta anche come Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham, ossia «Fronte della vittoria del popolo di Siria», chiamata anche Ansar al-Jabhat al-Nusra li-Ahl al-Sham, «Partigiani della vittoria del popolo della Grande Siria». Sia il termine Levante che Grande Siria ritornano. Il secondo, sul quale già abbiamo fatto alcuni cenni, ha un suo specifico fondamento ideologico e storico. Essa rinvia non allo Stato contemporaneo ma al Bilad al-Sham, una regione del Vicino Oriente che confinava con il Mediterraneo ad occidente, con il deserto siro-arabico ad oriente, con l’Egitto a meridione e con l’Anatolia nel settentrione. Nel Seicento e.v., quando andò affermandosi nell’intera area il Califfato degli Omayyadi, quella che noi oggi conosciamo – e consideriamo – come la mesoregione siro-libano-giordano-palestino-israeliana costituiva lo Sham, che era toponimo di antico retaggio, comprendente una sorta di ecosistema e un ambiente geo-antropico compreso all’interno di un’ampia area perimetrale racchiusa tra la Penisola arabica, l’Egitto e la Cilicia bizantina (un distretto sulla costa sudorientale dell’Asia minore, nell’attuale Turchia, a nord di Cipro). Il contesto geografico fu poi recuperato e trasposto, in età contemporanea, nelle suggestioni politiche e culturali che animavano l’ideologia nazionalista pansiriaca, rifacendosi alle ampi dimensioni della regione ai tempi del Califfato storico e poi della dominazione ottomana. Così nelle formulazioni di Antun Saade, politico libanese, di origine cristiano ortodossa e fondatore, nell’ottobre del 1932, del Partito nazionale sociale siriano. Una formazione politica che da subito si caratterizzò per la lotta contro la potenza mandataria di allora, la Francia, così come contro i cristiani falangisti. Saade, figura eclettica nel panorama politico mediorientale, era ostile sia al nazionalismo arabo (ritenendo che nessuna nazione potesse fondarsi sul monolinguismo, sulla monoetnicità o su una comune religione) che all’internazionalismo, attribuito ai movimenti di modernizzazione così come alla stessa religione. Secondo questo pensiero fondamentale era la condivisione di un comune ambiente geografico, il quale modellava, per così dire, quei tratti che sarebbero poi divenuti comuni. Così affermava nel suo volume dedicato alla «Genesi delle nazioni»: «La nazione risulta non dall’origine etnica comune, ma dal processo unificatore dell’ambiente sociale e fisico circostante. L’identità degli arabi non proviene dal fatto che essi discendono da un antenato comune, ma che essi sono stati modellati dall’ambiente geografico: il deserto dell’Arabia, l’Assiria per la Siria, il Maghreb…». Ed in accordo con questa impostazione Saade concepì i confini della Grande Siria arrivando a comprendere gli attuali Iraq e Cipro. Di fatto, secondo le sue formulazioni, l’intera regione era da considerarsi come un complesso senza soluzione di continuità compreso tra i monti Tauro (catena della Turchia meridionale) a nord-ovest, i monti Zagros (una catena di circa 1.500 chilometri che si sviluppa tra Iran e Iraq per finire nello stretto di Hormuz) a nord-est, il Canale di Suez e il Mar Rosso a meridione, comprendendo anche il Sinai e Aqaba, Cipro nel nord-ovest e, infine, parte dello stesso deserto arabico e il Golfo Persico a oriente. La rilevanza della predicazione del verbo pansiriaco di Saada, più che nei concreti risultati raggiunti, pressoché nulli, sta a tutt’oggi nel fatto che essa continua a ispirare, dopo un periodo di obnubilamento da parte delle organizzazioni nazionaliste, l’ideologia corrente di movimenti politici tra cui alcuni elementi dello stesso islamismo sunnita.
7.
Jabat al-Nusra nasce dunque con l’intenzione di capitalizzare la lezione del recente passato, evitando gli errori commessi dalla strategia di al-Qaeda. Di fatto si dà corso ad un reclutamento di miliziani in loco, ci si affida di meno al concorso di “stranieri”, si applicano criteri e condotte differenziate nei confronti della popolazione che vive nei territori occupati dall’organizzazione. L’obiettivo è di mantenere la “visionarietà” transnazionale che bin Laden aveva usato come propellente per la mobilitazione dei suoi sodali, senza per questo eludere il problema di avere adesso un solido radicamento territoriale. Nell’aprile del 2013 Abu Bakr al-Baghdadi rivendica a sé non solo il comando di al-Nusra ma la creazione dell’Isis. Quest’ultimo, nelle sue intenzioni, dovrebbe assorbire al-Nusra medesimo e superare, una volta per sempre, al-Qaeda nella regione. Il leader di Jamat al-Nusra, Abu Mohammed al-Joulani, non si piega alla volontà del nuovo capo e, nel rinnovare la sua fedeltà alla memoria di al-Zawahiri, di fatto scinde quel della sua organizzazione resta dal costituendo Isis. Anche da questa rottura deriva quindi la successiva autoproclamazione a califfo da parte di al-Baghdadi. Il cui modello politico non è tuttavia il califfato ottomano, definitivamente abolito dai kemalisti turchi nel 1924, bensì quello delle origini, legato all’esperienza storica, per come si è tramandata, del profeta Maometto alla Mecca e a Medina nel VII secolo e.v. La qualità di «khafila», ossia di rappresentante, cioè di delegato, dal Profeta, è periodicamente disputata da coloro che nella Mezzaluna fertile ambiscono ad assurgere ad un ruolo di leadership incontestabile in ambito sunnita. Molto diverso è il discorso per gli sciiti, dove invece il magistero di Ruhollah Khomeyni ha elevato al massimo grado politico non una figura che vorrebbe essere espressione di Maometto bensì il «giurista giusto e pio», poiché una repubblica islamica, secondo la dottrina sciita, non può che essere governata secondo il «velayat-e faqih», ossia la «tutela del giureconsulto». In altre parole, in questo secondo caso è guida colui che conosce la Legge (musulmana), lo spirito dei suoi tempi e sappia applicarla con equità e giustizia. Peraltro lo stesso Osama bin-Laden si era guardato dal definirsi “califfo”, giocando le sue carte semmai sul proselitismo che l’idea di militanza, di attivismo e di sacrificio incorporata nel Jihad, la «guerra santa» globale, porta con sé. Il volontarismo e la milizia erano per il capo di al-Qaeda più importanti di molto altro, definendosi semmai «emiro», un titolo che rinvia al governo e alla rappresentanza di una realtà circoscritta, non necessariamente propensa all’espansione. Il califfato, nell’ideologia radicale sunnita dei giorni nostri, assume invece una valenza di estrema mobilità e prevaricazione. Può divenirne capo indiscusso solo chi saprà istituire ex novo lo Stato islamico, dopo quattordici secoli di corruzione e devianza dall’insegnamento imperituro del Profeta. Cosa che, all’atto pratico, implica il controllo non tanto di alcune basi operative, e l’eventuale connivenza della popolazione locale (come nel caso afghano), ma lo stabile il presidio stabile su un’ampia area di territori, nei quali deve essere applicata la Sharia, la Legge coranica, ibridata dalla consuetudini di guerra (le quali permettono ogni deroga dallo stesso dettato del testo sacro). Non di meno, tali territori sono configurati come in perenne espansione, ovvero destinati a dilatarsi mano a mano che il Jihad procede e garantisce il raggiungimento degli obiettivi prefissi.
8.
La figura di Abu Bakr al-Baghdadi emerge all’interno di queste dinamiche, candidandosi, in competizione con altri leader, al ruolo di capo supremo. Il suo vero nome è Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri. Nato a Samarra, a nord di Baghdad, nel 1971, da una famiglia di modesta estrazione sociale, sembra essere il reciproco inverso di bin Laden: ricco e occidentalizzato il secondo quanto morigerato e “levantino” il primo. La sua vita è coperta da un alone di confusionarietà e di incomprensibilità, che viene scambiato, dai suoi sostenitori, come uno dei segni della sua naturale elezione al ruolo di khalifa. Trasferitosi ad Adhamiya, nei sobborghi della capitale irachena, compie studi in ambito religioso e pare vi consegua un dottorato di studio. Certuni gli attribuiscono il ruolo di imam, guida morale e spirituale, ma non vi è certezza al riguardo. Indirizza la preghiera, in virtù della bella voce che gli è riconosciuta, ma non vi è traccia che tenga sermoni. Di certo si sa che è timido, devoto e di indole conservatrice. Si sposa e fa un figlio. Con il 2003, all’arrivo degli americani in Iraq, al-Baghdadi si mette tuttavia in movimento. Nel caos di ruoli, poteri e funzioni che il collasso del regime di Saddam Hussein ingenera, si fa promotore della creazione di un Esercito dei sunniti, lo Jjasj. Secondo certuni è questo il passo che lo porta a stringere una solida alleanza con al-Zarqawi, il capo di al-Qaeda in Iraq; per altri, invece, il rapporto, che pur vi fu, sarebbe stato molto più freddo e distaccato. Sta di fatto che al-Baghdadi non fa nessun “tirocinio” fuori dal suo paese, come invece di prassi per molti militanti islamisti. Segue quindi l’arresto, per parte statunitense, a Falluja, e la detenzione nella struttura di Camp Bucca. All’epoca non viene considerato un “pesce grosso”, essendo reputato semmai una via di mezzo tra il militante politico velleitario e il criminale comune di strada. Viene trattenuto come «internato civile». Al suo rilascio (la cui data è incerta ma in tutta probabilità rinvia al 2009, come risulta dai registri americani), rientra nei ranghi del radicalismo islamista. Le morti di al-Zarqawi, prima, e poi del suo successore, Omar al-Baghdadi, aprono quindi le porte a quello che fino ad allora era stato un comprimario, relegato in un ruolo sostanzialmente appartato. Il 16 maggio 2010, un comunicato del cosiddetto Consiglio Consultivo dello Stato islamico dell’Iraq annuncia la nomina di Abu Bakr al-Baghdadi al posto di Abu Omar al-Baghdadi. Nove membri su undici del Consiglio votano a suo favore ma le perplessità e lo sconcerto, a dare credito alle diverse voci che circolano in ambito islamista, erano (e rimangono) molte. Al-Baghdadi non sembrava all’epoca avere la “statura” politica e militare dei suoi predecessori. Se la conquisterà, per così dire, sul campo, avviando una nuova stagione di violenze terroristiche caratterizzate da una particolare efferatezza. Sotto la sua regia sono infatti colpite in particolare modo le comunità cristiane e quelle sciite, le une e le altre accusate, nel medesimo tempo, di apostasia, di eresia e di compromissione con l’«occupante» americano. Giocando con abilità contemporaneamente sui due piatti della bilancia nel maggio del 2011 al-Baghdadi sbandiera in un comunicato la sua alleanza con Ayman al-Zawahiri, il successore di bin Laden, proclamando la sua fedeltà verso al-Qaeda. Al momento della costituzione dell’Isis, dichiara tuttavia Jabat al-Nusra estensione dell’Isis medesimo in Siria. Il leader di quest’ultima, Abu Muhammad al-Jawlani, si oppone, demandando ad al-Zawahiri, in quanto massima autorità in campo, un pronunciamento definitivo e inconfutabile al riguardo. Il capo di al-Qaeda rigetta quindi la fusione tra i due gruppi e impone ad al-Baghdadi di limitare le sue operazioni in Iraq, sciogliendo l’Isis. Cosa che questi si guarda bene dal fare, scegliendo tutt’altra strada e rispondendo seccamente, pan per focaccia, all’imposizione qaedista. Nei fatti assume immediatamente il controllo di Jabat al-Nusra, espellendola dalla città siriana di Raqqa, eletta poi a capitale dell’Isis, e provvedendo ad un sanguinoso regolamento di conti con quanti non intendevano riconoscergli la primazia. Nel solo Governatorato di Deir el-Zor, sempre in Siria, i violenti combattimenti tra le opposte fazioni, avvenuti all’inizio di quest’anno, sono stati all’origine non solo di una carneficina tra miliziani ma anche della fuga di decine di migliaia di civili. Data quindi al febbraio del 2014 la rottura di ogni residua relazione tra l’Isis e al-Qaeda, la quale di fatto ne disconosce la legittimità, contestando anche il surplus di violenza e di brutalità con cui l’organizzazione oramai abitualmente opera. Peraltro al-Baghdadi già alcuni mesi prima aveva provveduto a mettere a frutto la conquista dei campi petroliferi di Deir el-Zor per poi continuare, nella sua marcia trionfale, verso l’Iraq, attraverso l’espropriazione, ovviamente manu militari, dell’area confinaria con la Siria, di Falluja, Ramadi, poi di Mosul e di Tikrit, rispettivamente la seconda città del Paese e il luogo natale di Saddam Hussein. Se a questo punto, e siamo a giugno dell’anno in corso, la strada verso Baghdad parrebbe spianata, l’Isis vira invece a nord, sul Kurdistan iracheno, nel tentativo di raggiungere Kirkur, con i suoi ricchi giacimenti petroliferi, e avviare la disintegrazione della presenza curda. Da ciò derivano sia la risposta dei Peshmerga, l’unica forza militare strutturata presente in ciò che resta dell’Iraq, che l’improvvisa attenzione dell’intorpidita stampa e dell’anemico sistema delle comunicazioni occidentali, riguardo ad un conflitto perlopiù trascurato o inteso fino a quel momento come irrilevante. Il 29 giugno l’Isis si dà il nome di «Stato islamico», mentre al-Baghdadi si fa proclamare califfo con il nome di Ibrahim. Si tratta di uno sputo bello e buono in faccia a tutti i musulmani, oltre che del mondo occidentale, poiché il fondamento giuridico, la pretesa politica e lo spessore culturale dell’ “evento” sono pari allo zero, se non fosse che si reggono sulla potenza di fuoco della sua organizzazione. Il “califfo Ibrahim”, per rafforzare la propria credibilità, si autodefinisce discendente – peraltro non comprovato – della tribù dei Quraysh (i Coreisciti), alla quale apparteneva Maometto. Il 5 luglio si mostra al grande pubblico per la prima volta nelle sue nuove vesti: fa registrare e circolare su Internet una sua concione, tenuta nella moschea di al-Nuri, a Mosul, capitale elettiva dell’Isis, chiamando all’obbedienza nei suoi confronti tutti i musulmani del mondo e ingiungendo ad ognuno d’essi di dedicarsi all’affermazione della sua causa attraverso il ricorso alla violenza sistematica contro gli «infedeli». Va da sé che l’autoproclamazione non renda in alcun modo legittimo il suo preteso califfato, vuoi per il modo in cui il pronunciamento è avvenuto, attraverso un non meglio identificato “Consiglio della Shūra” vuoi per la mancanza di qualsiasi parere affermativo sia da parte della comunità dei dotti, gli ulema, sia delle rappresentanze musulmane dei diversi paesi in cui sono presenti le loro comunità. Poiché l’instaurazione di un califfato richiederebbe anche, come ulteriore passaggio sanzionatorio, l’espletamento di una serie di rituali religiosi, come ad esempio il richiamo ad esso nella recita della preghiera del mezzogiorno di venerdì, cosa, tra le altre, che al di fuori dei territori controllati dall’Isis non è mai successo. Ma quello che potrebbe altrimenti essere inteso come una commedia è in realtà una tragedia a tutto campo. Gli effetti devastanti, a tutt’oggi tangibili, sono molteplici, a partire dalla fuga in massa delle popolazioni.
(continua)
Claudio Vercelli
(31 agosto 2014)