Periscopio – Democrazia
Alla mostra del cinema di Venezia è in concorso anche il film “Villa Touma” della regista araba-israeliana Suha Arraf, finanziato con il Fondo israeliano a sostegno delle opere cinematografiche. Ciò nonostante, la Arraf si oppone alla pretesa che il film sia presentato come israeliano, perché lei è palestinese, e lo sarebbe pertanto anche il film, e il fatto di volerlo presentare come un prodotto israeliano sarebbe soltanto “una buona propaganda, un segno di democrazia” (la Repubblica, 1° settembre), voluti ad arte per oscurare le terribili immagini provenienti da Gaza.
Niente propaganda, d’accordo. La regista è palestinese, il film è palestinese, magari i soldi erano israeliani al momento in cui sono partiti, ma, non appena arrivati, sono diventati palestinesi. Chi ama e ammira Israele lo fa anche per amore e ammirazione della forza della sua democrazia, che estende i suoi diritti (o, almeno, si sforza di farlo) a tutti i suoi cittadini, senza chiedere a nessuno attestati di fedeltà e patriottismo. Sappiamo bene che questa forza della democrazia israeliana è anche una debolezza, non è certo facile conservare (o, almeno, sforzarsi di farlo) l’impalcatura di uno stato di diritto dovendo combattere, anno per anno, giorno per giorno, minuto per minuto, non solo contro l’odio e le armi di potenti nemici esterni, che vorrebbero semplicemente distruggerti, ma anche contro la perenne animosità di forti minoranze interne, di cittadini israeliani che si vergognano a essere definiti tali, e che non si capisce se il loro Paese vorrebbero correggerlo, migliorarlo, o sostituirlo con qualcos’altro. Ma, indipendentemente da questioni di forza e debolezza, la democrazia israeliana ha una radice antica, profonda, inestirpabile, legata alla sacra difesa della libertà di pensiero e di coscienza, che non può mai essere censurata o conculcata dal potere politico. Viene alla mente, di nuovo, una memorabile sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che affermò che bruciare la bandiera nazionale non può essere considerato un reato, giacché i valori di libertà che la bandiera stessa rappresenta sono così estesi da coprire anche la negazione degli stessi, anche attraverso il vilipendio di quella stessa bandiera che li simboleggia.
In Israele è lo stesso. Certo, tutto questo, per la Arraf, non è altro che ‘propaganda’. Pazienza.
Auguriamo alla pellicola, senza alcuna ironia, il successo che sicuramente merita, e auguriamo alla regista – promettendole di non definirla mai ‘israeliana’ – di potersi sempre esprimere in piena libertà, dovunque scelga di farlo. Se, come dice, in Israele è stata fatto oggetto di alcuni commenti ostili, solo in ragione della sua identità, le manifestiamo piena e incondizionata solidarietà.
Ci permettiamo soltanto di rivolgerle una piccola domanda: riconoscerebbe mai, a livello di mera ipotesi, a un regista di Gaza il diritto di produrre un film critico nei confronti della politica delle locali autorità? E, nel caso di risposta positiva, una seconda, ultima domanda: ove mai ciò accadesse, quale immagina sarebbe la risposta delle autorità stesse? Tutela della libertà di espressione e finanziamenti pubblici, insomma, per capirci, propaganda “alla israeliana”? O piuttosto, più semplicemente, e senza alcuna propaganda, un immediato plotone di esecuzione?
Francesco Lucrezi, storico
(3 settembre 2014)