J-Ciak – Ronit nella trappola del “Ghett”
Venezia e i suoi Leoni sono ancora tutti da archiviare e già ci si avvia a Toronto, mentre qui negli States appena iniziamo a digerire il Telluride Festival, piccola e sofisticata maratona cinematografica tra le montagne del Colorado spesso anticipatrice degli Oscar. Ma come ogni anno l’alluvione di cinema indipendente in arrivo dal Canada (trecento i film in concorso) accende ottimismi ed energie. E basta un’occhiata al programma per rendersene conto.
Presente in forze il cinema israeliano, con uno stuzzicante filone documentaristico – che merita un capitolo a sé – e alcune belle riconferme sul fronte della fiction: “Mita Tova” (The Farewell Party, Israele, Germania, 93’) di Sharon Maimon e Tal Granit, commedia dolceamara appena presentata a Venezia e soprattutto “Ghett” (Francia, Germania, Israele, 116’) di Ronit Elkabetz, già presentato a Cannes e poi vincitore a pari merito con “Princess” di Tali-Shalom Ezer del recente Jerusalem Film Festival funestato dalla guerra.
Dopo la prima veneziana arriva a Toronto anche “Villa Touma” (85’) di Suha Arraf, lavoro divenuto però “no country” dopo una polemica al vetriolo sull’uso di finanziamenti israeliani per un lavoro che la Arraf desiderava presentare come palestinese.
Poi, a spulciare il programma, si trovano decine di meraviglie per un verso o per l’altro J-themed di cui si è parlato si parlerà assai: da “Heaven knows that” di Benny e Joshua Safdie, giovani filmaker fratelli adorati dal circuito indie, a “Foxcatcher” di Bennett Miller dedicato alla vicenda drammatica del lottatore ebreo David Schultz; da “The Humbling” di Barry Levinson, con Al Pacino, tratto dal romanzo Umiliazione di Philip Roth a “Seymour – An Introduction” che Ethan Hawke, qui nei panni di regista, dedica al pianista Seymour Bernstein.
E vale la pena soffermarsi su “Felix and Meira” (Canada, 105’) di Maxime Giroux, storia in inglese, francese e yiddish di un amore clandestino che sboccia nella comunità ortodossa di Toronto. La protagonista, Meira, è interpretata da Hadas Yaron, giovane attrice israeliana già vincitrice due anni fa della Coppa Volpi per un ruolo molto simile ne “La sposa promessa”, delicato film di Rama Burshtein, dedicato a un amore nascente nella comunità ortodossa in Israele, di cui molto si è parlato.
Per contrasti e affinità spicca un altro film dedicato al matrimonio, “Ghett”, scritto da Ronit Elkabetz, che ne è anche l’interprete principale, con il fratello Shlomi, a breve nelle sale sia negli Usa sia in Europa. L’ambientazione è altrettanto straniante, anche se meno fascinosa, e anche qui si parla di sentimenti, di donne e della vita che scorre ma il tema è l’orrore di un amore finito che per legge ha licenza di spadroneggiare e ferire.
“Ghett” (titolo in inglese, “The Trial of Vivian Amsalem”) è la storia di Vivian, donna israeliana che da anni lotta per ottenere il divorzio, il “ghett” appunto. Il marito da cui è separata anni prima si ostina a negarglielo mentre i giudici abusano di formalismi, ambiguità e ritardi. Una vera e propria trappola, paradossale e dolorosa, che Vivian-Ronit Elkabetz narra con rigore e ritmi serrati mostrando uno dei lati forse meno conosciuti della società israeliana, in cui matrimonio e divorzio sono istituzioni religiose, non civili, e spetta all’uomo concedere il “ghett”.
Elkabetz conclude con questo film la trilogia composta da To take a wife (2004) e Shivah-Seven Days(2007) che esplorando il difficile matrimonio di Vivian e Elisha ha narrato la realtà degli israeliani di origine marocchina. E in una straordinaria coincidenza, a ribadirne la strettissima e dolente attualità ha provveduto a fine maggio, proprio nei giorni in cui il film veniva presentato a Cannes, uno scandalo che in Francia ha fatto molto parlare di sé.
“La guerra del ghet”, come titolava L’Express riferendo del caso è la vicenda che ha sconvolto l’ebraismo francese chiamando direttamente in causa il rabbinato (già scosso dalle dimissioni del Gran Rabbin de France Gilles Bernheim accusato di plagio). Molte donne hanno reso pubblico come le richieste di denaro in cambio del ghett avanzate da mariti recalcitranti – per cifre tra i venti e i centomila euro – sarebbero state di frequente avvallate dai rabbini e come spesso il tutto si sia risolto per le dirette interessate in un umiliante nulla di fatto che a lungo ha impedito loro di rifarsi una vita. Una trappola dolorosa, troppo spesso sottaciuta, che nel volto magnetico di Ronit Elkabetz trova un’interprete e una portavoce d’eccezione.
Daniela Gross
(4 settembre 2014)