promesse…
La parashà di Ki Thetzè contiene settantaquattro mitzvoth, la maggior parte delle quali riguarda i rapporti interpersonali. Una mitzvà è però di dubbia attribuzione: c’è chi la considera – appunto – interpersonale, e chi la vede come appartenente a quelle mitzvoth che riguardano i nostri rapporti con Ha-Qadòsh Barùkh Hu’. Il versetto che ne parla dice così: “Ciò che esce dalle tue labbra ossservalo e mettilo in pratica, quando hai promesso al Signore tuo D. un dono di cui hai parlato con la tua bocca”.
Dal testo sembrerebbe abbastanza chiaro che si parla di voti e promesse fatte a D. Chi fa un voto fa sì che quell’oggetto, o quel denaro, o quell’azione, escano dalla propria giurisdizione per entrare in quella divina; pertanto, una non osservanza del voto è un’appropriazione indebita di qualcosa di destinato a D.
Tuttavia, c’è chi interpreta il verso in modo diverso: nei confronti del nostro prossimo dobbiamo mantenere le promesse, per due motivi: il primo, che chi non mantiene la promessa è come se prima avesse detto il falso, il secondo, che non è giusto negare qualcosa al prossimo dopo avergli fatto credere che l’avrebbe ricevuto, tanto più se è un povero, o se si è pubblicamente dichiarato che glielo si sarebbe dato. Nei Mishlè è scritto: “Nubi e vento ma niente pioggia, così è l’uomo che si vanta di un dono finto”. Come ci si dispiace quando minaccia pioggia ma non piove, così chi si aspetta un dono che non arriva si dispiace e si lamenta.
Resta la domanda: quale delle due interpretazioni è giusta? Chi non mantiene una promessa è colpevole (e la cosa ha importanza in relazione alla Teshuvà necessaria) nei confronti del prossimo o nei confronti di Ha-Qadòsh Barùkh Hu’?
A ben vedere, credo che la domanda sia oziosa: l’ambiguità delle interpretazioni ci dice proprio che in quest’ambito non possiamo dividere l’aspetto divino da quello umano, perché la delusione di chi contava su quell’offerta viene raccolta da Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, che la fa Sua.
Elia Richetti, rabbino
(4 settembre 2014)