J-Ciak – Il Leone sorride a Oppenheimer
L’ambientazione è esotica e pare lontana anni luce. Siamo in Indonesia, a metà degli Sessanta, quando dopo il colpo di stato di Suharto decine di migliaia di persone sono trucidate dagli squadroni della morte perché sospettate di essere comuniste. Eppure “The look of silence”, il film di Joshua Oppenheimer che ha spuntato ieri il Gran premio della giuria al Festival di Venezia, è figlio di una visione del mondo e degli uomini quanto mai prossima a tutti noi, che sgorga dalla Shoah e da lì recupera una chiave preziosa per una lettura lucida e critica del presente.
Tutt’altri i toni, ma non le radici, dell’israeliano “Mita Tova – The Farewell Party” di Tal Granit e Sharon Maimoni, commedia dolce amara sull’eutananasia, ambientata in una casa di riposo, che ha ottenuto il Premio del pubblico alla selezione ufficiale delle Giornate degli autori (con uno schiacciante 97,5 per cento di voti) e da molti è stato considerato lavoro nel solco della più tagliente tradizione yiddish. Israeliano e profondamente legato al mondo ebraico europeo anche il Venice Short Film Nomination for the European Film Awards 2014, assegnato a “Pat Lehem – Daily Bread” di Idan Hubel, poetico racconto ispirato a una novella di Berdyczewsky, popolare scrittore e giornalista di origine ucraina che tra Otto e Novecento scrisse in ebraico, ucraino e tedesco.
Su un piano completamente diverso “The look of silence” – che Tim Roth non ha esitato a definire “un capolavoro” – usa gli occhiali della Storia (le lenti colorate tornano più volte nel corso del film) per calarsi nel presente. Come già nel documentario “The Act of Killing” da cui è scaturito il nuovo film, il regista texano che all’Indonesia ha dedicato lunghi anni di lavoro, racconta l’orrore con gli occhi dei carnefici.
L’idea di rovesciare la visuale non è nuovissima. Spostandosi in campo letterario, in tema di Shoah basta pensare al romanzo Le benevole di Jonathan Littell, che fece scandalo nel 2006 narrando lo sterminio dal punto di vista dell’ufficiale delle SSMaximilien Aue. O al recentissimo The zone of Interest di Martin Amis, di recente rifiutato in Germania e da Gallimard, che racconta Auschwitz nelle parole di tre guardie del campo. Ma il lavoro di Oppenheimer ha in sé una delicatezza e una poesia capaci di illuminare con atroce crudezza i meccanismi del male e della sua fin troppo celebrata banalità.
La storia è quella di Adi Rukun, mite optometrista di mezza età, che si mette sulle tracce degli uomini che hanno ucciso il fratello gettandolo nel fiume insieme a tanti oppositori del regime. Non cerca vendetta, non muove accuse: vuole capire cos’è accaduto e così incontra i carnefici o i loro imbarazzati figli ormai adulti. Li osserva e li ascolta in conversazioni attente e misurate. “Viviamo in un’unica comunità – dichiara – e vorrei che finisse il risentimento tra vittime e carnefici. Questo lavoro non può guarire le ferite inferte alla mia famiglia, non può cancellare il trauma, ma i miei figli forse avranno la possibilità di migliorare le cose”. Da parte dei torturatori l’ammissione di colpa, o almeno l’assunzione di responsabilità necessarie a svoltare, però non arrivano.
L’esplorazione del male e del tema dell’impunità è strettamente intrecciata al background di Oppenheimer. “Mio padre è di Francoforte e mia madre di Berlino – raccontava in un’intervista a Forward in occasione dell’uscita di “The Act of Killing”, opera che qualcuno ha paragonato a “Shoah” di Claude Lanzmann – La famiglia di mio nonno aveva lasciato la Germania poco prima che Hitler andasse al potere. Quando accadde lui studiava negli Stati Uniti ma riuscì a tornare in Germania e a fare uscire mia madre e i suoi genitori. Tutti gli altri componenti della famiglia vennero però uccisi. Anche la mia matrigna ha perso così l’intera famiglia e ho trascorso con lei metà della mia infanzia”.
“Senz’altro – continua – tutto questo è stato la questione politica e morale al centro della mia crescita ‘Come possiamo fare in modo che questo non accada mai più?’. E con ‘mai più’ non intendo in quel senso ingenuo per cui basta dirlo e magicamente si avvera, specie quando la storia ci mostra che ciò sta accadendo ancora e ancora
Daniela Gross
(7 settembre 2014)