L’Isis e la guerra in corso/3
La credibilità di Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamatosi “califfo”, è dunque assai discutibile. Ancora di più la consistenza del suo seguito tra i musulmani sunniti. La forza gli deriva dall’avere usato sapientemente, ancora una volta, quella formula alla quale i gruppi della galassia del fondamentalismo islamico, inteso come movimento politico della contemporaneità, ricorrono quando intendono occupare il vuoto lasciato dagli altri attori nello scenario collettivo, operando una miscela tra mobilitazione ideologica, militanza armata e forte visibilità mediatica. Gli elementi del gruppo che gli si sono raccolti intorno, e dei quali è patrocinatore esclusivo nonché capo indiscusso, avevano peraltro registrato, già nel passato, un forte indebolimento di ruolo e capacità operativa, a seguito dei successi registrati invece dalla strategia controinsurrezionalista messa in atto dal generale americano David Petraeus, dal febbraio del 2007 al settembre dell’anno successivo comandante del contingente statunitense in Iraq. Il disegno strategico dell’alto ufficiale prevedeva il perseguimento di alcuni obiettivi “forti”, in parallelo all’incremento temporaneo dei presidi armati sul territorio: una maggiore vicinanza e ripetute manifestazioni di solidarietà nei confronti della popolazione civile, con il dichiarato intento di aumentare il consenso verso la presenza delle truppe; la collaborazione con le locali tribù sunnite, cercando di ramificare una rete di rapporti duraturi, basati sul coinvolgimento dei loro rappresentanti nel percorso di riduzione delle tensioni interclaniche; l’emarginazione politica e ideologica di al-Qaeda, peraltro spesso mal sopportata dalla stessa popolazione, costringendola a dovere fare i conti con il suo estremismo. Si trattava di un programma a tempo e a termine: Petraeus, fine stratega, non si illudeva sulla tenuta a lungo di una intelaiatura dove i rapporti fiduciari erano sottoposti a continue verifiche di attendibilità. L’anello debole era lo stesso Stato iracheno, e le sue amministrazioni, divise al loro interno da una irrefrenabile conflittualità e da una scarsa – se non nulla – legittimazione al di fuori dei centri urbani (e spesso neanche in essi). Già nel marzo del 2004 al generale americano, dopo avere comandato la 101ma divisione aviotrasportata, utilizzata per la conquista di Baghdad nel 2003 e, a seguire, le truppe stanziate a presidio nel nord iracheno, era stato quindi demandato l’incarico di concorrere a ricostruire le forze armate locali, registrando sul campo le infinite difficoltà esistenti. La costituizione di un esercito nazionale post-baathista sembrava già allora essere un’impresa ai limiti dell’impraticabile. Se nelle società in via di sviluppo, o comunque divise al loro interno da faglie di competizione interclanica, l’esercito costituisce l’ossatura essenziale per la costruzione non solo di una pubblica amministrazione “universalista” (ossia che si rivolge alla collettività indipendentemente dalle appartenenze pregresse dei singoli individui) ma anche la fucina di un ceto medio che dovrebbe svilupparsi poi con le attività del terziario, in Iraq Petraeus misurava, con lo sfaldamento dell’intelaiatura baathista, le gigantesche difficoltà nel tenere insieme pezzi a sé stanti, in via di frammentazione centrifuga, di quello che era stato il sistema di governo raccoltosi intorno a Saddam Hussein. L’unico, peraltro, che in quella regione avesse garantito un equilibrio tra parti altrimenti contrapposte, sia pure ricorrendo alla forza e, spesso, al terrore. Dopo un periodo di comando negli Stati Uniti, in cui fu incaricato dell’elaborazione della dottrina militare ufficiale statunitense, compilando il nuovo manuale ufficiale per le attività contro-insurrezionali delle forze armate di Washington, nel quale ribadiva la necessità di proteggere la popolazione locale dagli attacchi armati, al contempo avviando una più stretta cooperazione civile-militare nelle aree a rischio di infiltrazioni estremistiche, il generale ritornò quindi in Iraq come comandante in capo delle truppe statunitensi. Aiutato da un gruppo selezionato di collaboratori, meglio conosciuti come «Petraeus’ Thinkers», si adoperò nel difficile compito di dare corpo alla ricostruzione, sul campo, degli apparati pubblici iracheni, mantenendo nel medesimo tempo il controllo militare del territorio e coltivando le relazioni con la società civile. Una tale strategia, tanto raffinata quanto onerosa, al riscontro dei fatti risultava però l’unica produttiva, limitando gli effetti della competizione tra gruppi contrapposti e cercando di istituire nuovi “baricentri di lealtà”, organismi collettivi interclanici, dispensatori di risorse, sui quali fare confluire fedeltà collettive e aspettative di crescita, per togliere ai gruppi terroristici e guerriglieri spazi di manovra nonché di legittimazione. Ai giorni nostri, purtroppo, questa impostazione è stata totalmente vanificata dalle scelte settarie e faziose dell’ex premier sciita Nuri al-Maliki, che negli ultimi quattro anni del suo mandato ha compromesso qualsiasi possibilità di collaborazione con le ampie componenti sunnite del Paese. Di fatto, l’ “irachizzazione della guerra in Iraq” rischia di seguire per più aspetti la medesima parabola del processo di “vietnamizzazione del conflitto in Vietnam”, a suo tempo voluto e perseguito dall’Amministrazione Nixon tra il 1971 e il 1975.
Proprio in tale contesto di persistenti tensioni, al-Qaeda in Iraq prima e l’Isis poi, sono riusciti a costruire e a consolidare la propria presenza. La connection, non solo territoriale ma anche simbolica, tra la guerra civile in Iraq e quella siriana ha costituito la chiave di volta per al-Baghdadi, la sua grande opportunità, portando alla proclamazione del sedicente “califfato”. La politica militare dell’Isis continua a tutt’oggi a ruotare intorno ad alcuni paradigmi: l’alleanza con una parte delle tribù sunnite, già armate del proprio; la convergenza con i gruppi baathisti (che sono tutto fuorché componenti del jihadismo, nutrendo semmai un implacabile odio verso la dirigenza sciita dello Stato iracheno) e la lotta contro le minoranze interne. In particolare i curdi, gli yazidi e i turcomanni, parte integrante del complesso mosaico interetnico iracheno. La brutalità, rivendicata ed esibita, è parte integrante dello spettacolo della guerra su cui il “califfo Ibrahim” cerca di alimentare le sue fortune e la sua credibilità. Come tale va presa in considerazione e valutata, evitando di soffermarsi alla sua superficie, cioè alla sua sola condanna morale (che pur si impone), poiché per l’Isis è un tratto essenziale del modo in cui esercita il reclutamento e si “fidelizza” in quanto soggetto militante del jihadismo. La coalizione di forze che lo compongono non riuscirebbe altrimenti a rimanere insieme se non si caratterizzasse per un tratto distintivo, quello che esprime l’intenzione di fare terra bruciata intorno a sé, “purificando” il territorio del «Levante» dalla presenza di infedeli, apostati e traditori. Già bin Laden e al-Zawahiri avevano manifestato confidenza nel ricorso alla forza contro i civili, ma per entrambi si trattava di un cupo instrumentum regni, da usare pure con una qualche cautela, per non alienearsi del tutto il rapporto con le popolazioni. Anche in ragione del ricorso indiscriminato che invece gli uomini di al-Baghdadi vanno facendo alle violenze sistematiche, soprattutto contro altri gruppi sunniti, era derivata la loro espulsione da al-Qaeda, o meglio la dissociazione di quest’ultima dal circuito controllato da al-Baghdadi. Fermo restando che la vera goccia che ha fatto traboccare il vaso fu l’intromissione del gruppo jihadista nella guerra siriana, dove al-Qaeda aveva già delegato le operazioni a Jabhat al-Nusra. Come già si è sottolineato, alla fine del 2013 l’Isis uscì comunque rafforzato dalle sue vittorie militari in Siria, tornando quindi in Iraq e conquistando le città di Falluja e Ramadi. Un elemento di forza, che ne ha corroborato il consolidamento, è costituito dal fatto che a differenza di altri gruppi islamisti combattenti in Siria, l’Isis non dipende in tutto e per tutto per la sua sopravvivenza dagli aiuti di paesi stranieri.Lo sforzo che ha cercato di realizzare è stato quello di costituire da subito un’ossatura economica, in grado di alimentarne l’impegno bellico. Da ciò, quindi, la tassazione imposta alle popolazioni assoggettate, la vendita di elettricità a Damasco (dopo averle sottratto il controllo di alcune centrali elettriche), l’esportazione del petrolio prodotto dai pozzi caduti sotto la sua giurisdizione. In realtà non ha acquisito nessuna reale autonomia finanziaria ma sta rivelando una maggiore capacità di pianificazione rispetto ad altri gruppi jihadisti. La qual cosa, al momento, vale soprattutto per le risorse che trae dal controllo dei territori siriani, avendo invece maggiori difficoltà nel caso della zona irachena, dove occorrerebbero investimenti ad hoc, impensabili in tempo di guerra. Di certo, una buona disponibilità di denaro permette all’Isis di stipendiare ancora con continuità i suoi miliziani, meglio pagati dei combattenti di altri gruppi (un elemento, quest’ultimo, strategico nella lotta per la coesione interna). Peraltro, l’aggravarsi della crisi irachena sta orientando oramai da tempo il governo iraniano ad intervenire in loco, nel nome della tutela degli sciiti. Non si tratta di una forza d’invasione – che richiederebbe l’assenso di una parte dei protagonisti internazionali, a partire dagli Stati Uniti – bensì di un’azione sistematica di logoramento dell’Isis. Una sorta di lavoro ai fianchi, per così dire, che parte dalla premessa – che è anche riscontro di fatto – dell’inaffidabilità degli esponenti dell’élite sciita irachena dal punto di vista della negoziazione politica. Già da un paio di mesi Teheran ha avviato un’azione di infiltrazione oltre confine di uomini delle Forze Quds, la più importante diramazione operativa dei cosiddetti Pasdaran, i «Guardiani della Rivoluzione». L’entità dipende dall’«Ufficio per i movimenti di liberazione», organismo di coordinamento all’estero, nato come costola degli stessi Pasdaran, con l’obiettivo di porre in sintonia, ovvero di mettere al passo con le necessità della Repubblica islamica dell’Iran, i gruppi sciiti operanti in Libano. Dal 1982 l’Ufficio ha assunto una fisionomia autonoma, adoperandosi soprattutto in Afghanistan, in accordo con i Mujaheddin, vantando la copertura di organismo indipendente, ossia non governativo, in realtà diramazione dell’ufficio dell’Ayatollah Hossein Ali Montazeri a Qom. Calcolati in quindicimila unità (ma le stime variano, a seconda delle analisi, da un minimo di duemila elementi a un massimo di cinquantamila, dei quali solo una parte combattente), gli appartenenti a questa milizia, altamente professionalizzata e motivata, sono il prodotto delle scelte fatte dal gruppo dirigente iraniano durante la guerra contro l’Iraq, tra il 1980 e il 1988. A quei tempi, per sostenere i curdi nella loro lotta indipendentista contro Saddam Hussein, furono creati reparti specializzati che penetrarono nel Kurdistan iracheno. In quegli stessi anni vennero quindi impiegati anche in Afghanistan, contro l’allora governo filosovietico (successivamente “autonomista”) di Mohammed Najibullah. Le Forze Quds lottarono quindi insieme agli uomini della cosiddetta «Alleanza del Nord», di Ahmad Shas Massoud, contro i Talebani, per poi, in tempi più recenti, sostenere invece questi ultimi nel loro conflitto contro il governo centrale afghano di Ahmid Karzai. In accordo con il loro principale obiettivo, quello di addestrare e controllare milizie dell’islamismo radicale favorevoli all’Iran, è certa la loro presenza anche nei conflitti che, durante gli anni Novanta, hanno insanguinato l’ex Jugoslavia, ed in particolare nella Bosnia Erzegovina, così come in Libano, a fianco di Hezbollah. Si ritiene che l’Iran abbia provveduto ad inviare già un battaglione di uomini delle Forze Quds, circa cinquecento, in grado di supportare e sostenere le milizie sciite locali. Di fatto tale ossatura protettiva rende assai più improbabile l’ipotetica conquista jihadista di Baghdad, città a maggioranza sciita, facendo sì che l’Isis cerchi invece di rafforzare il controllo su quelle parti del territorio iracheno a prevalenza sunnita, dove sa di potere contare su un qualche consenso della popolazione.
In realtà le forze dell’Isis non riescono a controllare una porzione sufficientemente ampia e continuativa del territorio iracheno. Le loro conquiste hanno seguito un andamento per più aspetti imprevedibile. Se fino alla primavera si attestavano nel governatorato di al-Anbar, loro roccaforte, ora tale insieme alla provincia siriana di Raqqa, con il giugno di quest’anno hanno iniziato una grande offensiva militare, assicurandosi il controllo di Mosul. La rilevanza della città, e dei suoi dintorni, è data non solo dall’essere la seconda città del Paese ma anche e soprattutto dal costituire l’anello obbligato di congiunzione per i traffici commerciali tra Iraq e Siria. Per le milizie jihadiste, che poi proseguiranno nei giorni successivi l’avanzata prendendo Hawija, Riyad, Suleiman Bek, Siniyah, Sharqat, Saadiyah, Rawah, Habbaniyah, al Adham, e infine Tal Afor il 17 giugno, avvicinandosi sempre di più alla capitale Baghdad, i calcoli che li hanno mossi verso obiettivi non sempre in stretta continuità, sono stati però anche altri, rinviando semmai alla rilevanza del controllo economico dei territori di volta in volta conquistati. Nel ruolino di marcia seguono quindi gli scontri tra miliziani e forze governative a Muqdadiyah (80 chilometri dalla capitale), al-Khalis (60 chilometri), Dujail (40 chilometri). Il 21 giugno le truppe lealiste decidono di lasciare il nord del Paese e di concentrarsi a protezione di Baghdad, la cui caduta avrebbe decretato, in tutta probabilità, il crollo del governo e di ciò che restava dell’autorità pubblica. In quegli stessi giorni l’Isis fa però rotta decisa verso la Giordania, assicurandosi due valichi, Walid e Trebil e costringendo Amman a schierare le truppe al confine. Dopo questa cavalcata l’offensiva si assesta e rallenta il ritmo, nel mentre al-Baghdadi si proclama, per l’appunto, “califfo”. A luglio inoltrato riprende vigore verso il nord, dirigendosi verso il Kurdistan iracheno, regione autonoma dal 2005. È quindi la volta dei villaggi cristiani e yazidi, con la conquista, in rapida successione, nei primi giorni di agosto, delle città di Zumar, Sinjar e Bashiqa. È poi il tempo di Bartella e Qoraqosh, quest’ultimo l’agglomerato cristiano più grande di tutto l’Iraq. Yazidi e cristiani si trovano così sotto il fuoco incrociato delle milizie, fuggendo in grande numero dalla loro avanzata. L’11 agosto l’Isis, che da giugno sta combattendo contro le forze curde asserragliatesi a Jalawla, cento chilometri a nord-est della capitale, si assicura anche questa posizione. Il ritmo e la direzione dell’avanzata, alla quale seguono a volte ritirate occasionali o di natura “tattica”, per meglio riposizionarsi, come si osservava non sono dettati esclusivamente dalla rilevanza militare dei singoli obiettivi ma anche dalla loro importanza economica. Così, se il 18 di giugno è la volta del pozzo petrolifero di Ajeel, il giorno successivo gli scontri si concentrano presso la raffineria di Baiji, caduta definitivamente nelle mani dei miliziani tre giorni dopo. Il 22 si erano peraltro già assicurati la base aerea di Qayyara. A tale riguardo, l’acquisizione degli aeroporti serve all’Isis per impedire alle truppe lealiste di potere contare sul sostegno aereo, riducendolo a fattore tattico, quando esso potrebbe invece fare la vera differenza strategica. Pochi giorni dopo, il 26, è la volta del pozzo petrolifero di Mansuriya e di Camp Spiker, a nord di Tikrit. Ad ogni conquista bellica segue una sorta di rituale bagno di sangue, spesso ripreso dalle cineprese ed enfatizzato dai circuiti di comunicazione internazionale. Il regolamento di conti implica non solo la brutale sottomissione dei civili “infedeli”, dopo averne assassinati un certo numero, a titolo di “esempio”, ma anche l’eliminazione fisica dei militari caduti nelle mani degli jihadisti. Ai quali il nord iracheno fa gola per i pozzi petroliferi, presenti nella zona e la diga di Mosul (poi conquistata il 3 agosto). Benché i Peshmerga avessero chiesto già a metà di giugno l’aiuto militare occidentale, solo il 7 agosto arriva l’autorizzazione di Barack Obama per interventi mirati, con bombardamenti di sostegno alle truppe di terra nelle regioni settentrionali.
Ricapitolando, al di là dei successi militari della formazione jihadista, stemperati solo dal tardivo e reticente intervento degli Stati Uniti, la sua repentina tempistica indica una strategia di evoluzione in due tempi. A cavallo tra il 2012 e il 2013 conduce un grande numero di attacchi terroristici, tra autobombe, kamikaze, scontri con armi leggere, lanciagranate e lanciarazzi, con due deliberati obiettivi, il primo dei quali è la destabilizzazione del governo centrale e il secondo consiste nel reclutamento di elementi per la propria successiva attività di combattimento in campo aperto. Solo dopo, pertanto, passa allo scontro dichiarato, ossia alla guerra campale e di movimento associata alla guerra civile, mantendendo aperti, contemporaneamente, quattro fronti: contro la capitale Baghdad; verso il nord, lambendo il Kurdistan iracheno; nei riguardi del confine giordano, quindi ad ovest e, infine, in Siria. La lievitazione dell’Isis è direttamente proporzionale non solo alle sue accresciute capacità operative ma anche alla debolezza dello Stato iracheno e alle incongruenze delle politica americana (in subodine di quella europea). Già nel 2003, dopo l’abbattimento di Saddam Hussein, erano infatti emerse numerose falle nelle scelte statunitensi. A fronte del progetto ideologico di istituire nella regione un «nuovo Iraq», fortemente caldeggiato dagli ambienti neoconservatori dell’allora Amministrazione Bush, ciò che ne era conseguito era stato invece un incremento del caos e del disordine. All’idea, assai utopistica, di fare del Paese una sorta di esempio di stabilità e di sviluppo si erano da subito contrapposte le persistenti sperequazioni di ordine politico, economico, sociale e i conflitti culturali che animano da sempre l’intera regione. Per non parlare delle continue violazioni dei diritti più elementari, a partire da quelli umani. Il tutto amplificato dalla mancanza di un’autorità che non fosse quella dell’esercito statunitense. Di fatto, le speranze (e le illusioni) di potervi importare la «democrazia», nella sua versione atlantica, erano quindi ben presto cadute. Contribuivano a ciò scelte controproducenti, come lo scioglimento delle forze armate create da Saddam Hussein, il processo di de-baathificazione delle strutture amministrative, il convincimento che l’introduzione repentina di una economia di mercato potesse contribuire all’evoluzione del quadro generale. Tutte opzioni che hanno invece gonfiato velocemente un’area del malcontento, composta di esclusi, di emarginati e di soggetti in cerca di rivalsa. Non di meno, gli americani, alla prova dei fatti, hanno dovuto fare propri alcuni aspetti del modello delle relazioni patrimonialistiche e clientelari di natura etno-clanica, scendendo a patti con i maggiorenti dei gruppi settari più importanti. Qualcosa di molto distante dall’universalismo propugnato dalla teorie di derivazione occidentale. Ma aggravato, se mai ce ne fosse stato il bisogno, da un deficit di legittimazione che derivava dall’essere considerati come scomodi “occupanti”. Dopo di che, il loro ritiro, ultimatosi nel dicembre del 2011, voluto soprattutto dalla proterva dirigenza irachena, è avvenuto garantendo, con considerevoli sforzi, un quadro di relativo equilibrio. In quei giorni, infatti, le forze qaediste erano relegate all’area di Mosul, mentre il ricostituito esercito iracheno sembrava potere reggere le tensioni a venire. Le cose andarono però diversamente. Fu in quella circostanza, infatti, che il premier sciita Nuri al-Maliki, considerando il campo finalmente libero dall’ingombrante presenza occidentale e smentendo le promesse precedentemente fatte a Washington, procedette ad una radicalizzazione della sua azione politica, ponendosi in rotta di collisione con le opposizioni interne, a partire da quelle sunnite. Ne ha fatto seguito una vera e propria epurazione politica dei vertici del nuovo Stato, seguita a violenze indiscriminate contro la minoranza musulmana sunnita. Nel dicembre del 2012, dopo una serie di estromissioni, al vertice come negli uffici periferici, di esponenti della comunità minoritaria, l’allora ministro delle Finanze Rafi al-Issawi fu arrestato. Il gesto venne considerato come il segno di una svolta, quella che un regime politico dove l’esecutivo, completamente indifferente ai bisogni di una gran parte della popolazione, nonché vessatorio, dispotico, dipendente dall’Iran, intendeva dare ai rapporti interculturali e politici nel complesso e delicato mosaico dei gruppi locali. La crisi quindi esplose violentemente, a partire dal nord-ovest del Paese. L’intervento repressivo della polizia, dell’esercito, delle forze di sicurezza non fermò l’onda di piena. È all’interno di questa situazione di quadro che si inserisce l’Isis. Il quale capitalizza le tensioni e le crescenti instabilità, godendo della connivenza di una parte della popolazione. Così, nel 2012, l’ondata di attentati dinamitardi su amplissima scala, poi gli assalti alle carceri e, infine, la guerra in campo aperto. Fino a questi giorni.
Claudio Vercelli
(7 settembre 2014)