Qui Trieste – La ferita della Grande guerra Fra cultura e psicanalisi
Tanti gli spunti per una lunga e seria riflessione sulla guerra. Questo enorme patrimonio resta a chi ha seguito i lavori del convegno che si è svolto a Trieste, presso l’Auditorium del Museo Revoltella, dal titolo “Riflessioni sulla Grande Guerra: cultura e psicoanalisi a Trieste”. Gli psichiatri Paolo Fonda e Rita Corsa, la pediatra e neuropsichiatra infantile Vlasta Polojaz, la psicologa clinica Giuliana Marin, il criminologo Pierpaolo Martucci e la direttrice del Museo Revoltella Maria Masau Dan si sono alternati contribuendo, ognuno per le proprie competenze, a delineare un’immagine poliedrica degli orrori di ciò che Eric Hobsbawn, cui si deve tra l’altro la definizione di “secolo breve” dato al ‘900, considerò essere il primo atto di un’unica guerra mondiale che iniziò a Sarajevo il 28 giugno 1945 e si concluse a Hiroshima il 6 agosto 1945. È stato Paolo Fonda, che ha diretto i lavori e aperto la giornata delineando il quadro generale del periodo a chiamare subito in causa l’importante storico britannico.
Dal titolo è fin troppo chiaro che l’attenzione si è focalizzata sugli effetti psichici di questa immane tragedia, che provocò negli individui e nelle società cui essi appartenevano traumi a noi difficilmente comprensibili.
Il contributo di Pierpaolo Martucci si è focalizzato sulle diverse posizioni presenti nel mondo ebraico triestino tra identità comunitaria e sentimento nazionale.
Come spesso accade in questi casi, le immagini possono aiutare a realizzare meglio ciò che viene raccontato. Per questo si deve essere grati a Rita Corsa (autrice tra l’altro del libro “Edoardo Weiss a Trieste con Freud”, ed. Alpes, Roma, 2013) che, nel corso del suo intervento ha mostrato alcuni spezzoni tratti dal documentario (2008) di Enrico Verra “Scemi di guerra”. Le sequenze mostrate non sono le solite cui siamo abituati quando si tratta della guerra in trincea, con esplosioni e cariche; hanno fatto vedere infatti quello che gli psichiatri, soprattutto francesi e inglesi, hanno raccolto sui pazienti che affollarono i manicomi di tutta Europa dopo la fine delle ostilità. Tra i tanti medici che seguirono questi casi, proprio Edoardo Weiss (Trieste, 1889 – Chicago 1970), l’allievo di Freud che seppe portare la psicoanalisi in Italia. L’importante ricerca di Rita Corsa e Annamaria Pavanello Accerboni tra le cartelle cliniche del manicomio triestino redatto da questo grande medico, ha dato un importante contributo agli studi sull’argomento.
Poi, altre immagini, meno cruente, ma altrettanto coinvolgenti: i quadri che hanno accompagnato le relazioni di Maria Masau Dan su Vittorio Bolaffio (Gorizia 1883 – Trieste 1931) e di Giuliana Marin su Arturo Nathan (Trieste 1891 – Biberach an der Riss 1944), pittori diversi nella scelta dei soggetti ma molto simili per l’intensità che seppero raggiungere con la propria arte.
Infine il contributo della letteratura su un’epoca che andrebbe studiata molto di più per riuscire a comprendere meglio i conflitti che attualmente devastano il pianeta: Vlasta Polojaz racconta Vladimir Bartol scrittore sloveno (Trieste 1903-Lubiana 1967), con un’attenzione particolare alla sua adolescenza vissuta durante questo stesso periodo e alla sua condizione di profugo dopo la fine del conflitto.
In una lettera del 1937 al collega Paul Federn, Edoardo Weiss scrive: “I tempi odierni appariranno ai nostri posteri estremamente interessanti dal punto di vista storico e culturale. Noi però siamo i contemporanei che ne portano le sofferenze”. Paolo Fonda, in risposta ad un intervento dal pubblico, ha ricordato che, di fronte a shock così violenti e estesi nelle popolazioni, la prima generazione, quella che vive gli orrori, soprattutto se appartenente alla parte degli sconfitti, torna a casa e si chiude nel silenzio della sofferenza, escludendo i figli da una narrazione che permetta ad entrambi di elaborare un lutto non gestibile dal singolo nella propria solitudine; dalla generazione dei nipoti in poi è possibile parlarne per permettere anche alla società di fare i conti con il proprio passato, e riuscire così a dare un senso a tutto questo per poterne trarre un certo qual insegnamento per il presente ed il futuro. Forse, dopo cent’anni, è arrivato il momento di iniziare a farlo sul serio.
Paola Pini
(8 settembre 2014)