Schiavitù

tobia zeviNei prossimi giorni l’Italia ebraica mostrerà tutta la sua vitalità e capacità di apertura tra Giornata della Cultura ebraica, Festival internazionale della letteratura ebraica di Roma e “Jewish and the City” a Milano. Si tratta di iniziative ormai consolidate, cresciute negli anni, che testimoniano la validità di un vecchio adagio: l’offerta crea la domanda (e la concorrenza migliora il prodotto). La kermesse di Milano è dedicata quest’anno al tema della Pesach, la Pasqua ebraica, con il corollario di significati relativi all’esodo biblico: schiavitù, liberazione, difficoltà dell’affrancamento, alleanza, terra promessa.
Lavorando sul mio intervento, riflettevo sulle schiavitù a cui l’uomo contemporaneo si sottopone ed è sottoposto. Poi mi sono imbattuto casualmente in un articolo di Massimo Alberizzi, corrispondente in Africa del “Corriere della Sera”, a proposito della schiavitù in Niger, e sono letteralmente trasecolato. Possibile che nel mondo globalizzato esistano ancora ampie sacche di schiavitù “tradizionale”, e soprattutto che questo dato sia sostanzialmente ignorato?
È possibile che Aljaoudat, intervistata nel pezzo, affermi: “Sono nata schiava e Dio mi ha creato per questo. Quando avrò finito questa vita, finalmente raggiungerò il paradiso che mi è stato promesso. I miei genitori erano schiavi di Muala Mugaiala, il mio padrone che ora comanda su 200 persone: 100 uomini, 50 donne e 50 ragazzi. Sai, è una persona importante. Lui va sempre a Niamey a parlare con i capi”? Davvero può esistere un’altra donna, Idiokul, che dichiara: “Ogni tanto fa le feste con i suoi amici e alla fine chiede loro di appartarsi con noi, così ci mettono incinte e partoriamo un altro schiavo”? Persone che non conoscono il senso della parola “libertà”, sfruttate, seviziate, stuprate, torturate.
Pensiamoci, quando penseremo alle nostre schiavitù. Combattiamole, ma rendiamoci anche conto di quanto siamo fortunati.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas twitter @tobiazevi

(9 settembre 2014)