Teshuvah…
La Torah riporta qui (nella parasha Nitzavim-Wa-yèlekh) una singolare promessa divina: “Se fosse il tuo allontanamento fino all’estremità del Cielo, da lì ti radunerà il S. tuo D.o e da lì ti prenderà”. A logica, avremmo potuto aspettarci che la Torà parlasse di una distanza “fino all’estremità della Terra” e non “fino all’estremità del Cielo”; perché dunque questa strana espressione?
Il Bà‘al Shem Tov, fondatore del movimento chassidico, sosteneva che un Ebreo, anche se a volte commette peccati o malversazioni nell’ambito degli affari o del commercio, sotto sotto lo fa con un fine superiore, “le-shèm shamàyim”: per guadagnare qualcosa di più in modo da poter fare beneficenza, o solennizzare in qualche modo speciale lo Shabbath o le feste, o garantire un bel matrimonio ai propri figli.
La Torah intenderebbe quindi proprio questo: se l’allontanamento dell’Ebreo dal sentiero indicato dalla Torah è “all’estremità del Cielo”, ossia in qualche anche remoto modo collegato al fare qualcosa di “celeste”, con un fine superiore, in quel caso quella anche minima scintilla di Ebraismo può essere recuperata e riportata all’interno della collettività d’Israele. Basta anche la minima intenzione “le-shèm shamàyim” a salvare l’uomo dallo sprofondare nell’abisso del peccato ed avere la possibilità di fare Teshuvah.
Io voglio sperare – ed augurare a tutti noi – di riuscire a vedere e recuperare le più remote scintille dell’ “estremità del cielo”, e riportarle all’interno della collettività ebraica; sia questo un augurio per l’incipiente nuovo anno ebraico.
Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana
(18 settembre 2014)