Teshuvà per la consapevolezza

“Questo è il momento in cui ci si ritrova insieme a riflettere sul paradosso della nostra grandezza e limitatezza, come singoli e come popolo. Il momento in cui dobbiamo prendere atto del miracolo della nostra esistenza, che si rinnova con continua e prodigiosa vitalità malgrado le debolezze umane, esprimere gratitudine per questo e cercare di meritare con il nostro comportamento ‘grazia, amore e misericordia’ dall’Alto e dalle persone. Il ritorno, la teshuvà, è il tema centrale di questi giorni e raggiunge il culmine in queste ore; è un invito a mettere in discussione tutto quello che facciamo, come singoli e come istituzioni”. Lo ha affermato il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni intervenendo nel Tempio Maggiore della Capitale in occasione del digiuno dello Yom Kippur. Incentrati sul significato di teshuvà e sulle sfide (individuali e collettive) di ogni comunità ebraica i discorsi tenuti in molte sinagoghe d’Italia. Di grande densità, tra le altre, la riflessione del rabbino capo di Torino Ariel Di Porto. “La differenza fra teshuvà del singolo e della collettività – ha spiegato rav Di Porto – si può individuare anche in alcune particolarità nella tefillàh di Kippur: il singolo inserisce la confessione dei peccati al termine della ‘amidàh, mentre l’officiante la recita all’interno della ‘amidàh, nella quarta benedizione. La differenza è giustificata dal fatto che per il singolo la confessione dei peccati costituisce una richiesta, e non è consentito interrompere la ‘amidàh per una richiesta personale; la collettività invece è certa che la sua teshuvà verrà accolta, e pertanto la recitazione della confessione dei peccati non costituisce interruzione. E questo spiegherebbe perché in moltissimi posti (anche se non a Torino) il widdui nella ripetizione della ‘amidàh viene cantato, mentre quello del singolo viene detto sottovoce con timore”.
Citando il Talmud Yerushalmì (Makkot cap.2, Halakhàh 6), il rav ha poi sottolineato una sostanziale differenza fra il pentimento del singolo e quello della collettività: il singolo, oltre a riconoscere il proprio peccato, deve infatti pregare “affinché i suoi peccati vengano perdonati”, mentre la collettività ha una rassicurazione da parte del Signore “che la teshuvà verrà accettata”. Come viene anticipato in Deutoronomio 30,1-2: “Quando si saranno verificate su di te tutte queste cose, la maledizione e la maledizione che io posi davanti a te e tu vi rifletterai sopra, in mezzo alle nazioni presso le quali ti sospinse il Signore tuo Dio, tornerai al Signore tuo Dio e ne ascolterai la voce secondo tutto ciò che io ti comando oggi, tu insieme con i tuoi figli con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima”.
“Ci lamentiamo in continuazione e ci indigniamo, giustamente, per l’antisemitismo. Ma cerchiamo di capire perché ci lamentiamo: perché non ci consentono di essere ebrei – si è chiesto invece rav Di Segni – o perché non ci consentono di confonderci e sparire in mezzo agli altri? E ancora: ricordiamo con angoscia le persecuzioni del passato. La memoria del passato è doverosa ed essenziale, ma non sufficiente; l’attenzione al futuro non è meno importante; cosa facciamo per il nostro futuro ebraico? La ricetta è tanto semplice quanto trascurata: studiare, educare, mantenere le tradizioni e trasmetterle, costruire nuove famiglie. E ancora: siamo capaci di attirare dall’esterno con le nostre iniziative migliaia di persone curiose e assetate di ebraismo, ci fa giustamente piacere e ci investiamo risorse; ma quanto tempo, risorse e interesse dedichiamo noi alla conoscenza del nostro patrimonio?”
L’invito del rav è quindi ad investire nell’educazione, senza la quale – dice – si costruisce e si dà di se stessi un’immagine di “pura apparenza” e “folklore”. Altra sfida quella di riportare al cuore di ogni Comunità i valori dello Shabbat. “Lo Shabbat non è certo una cosa da ricordare in una giornata internazionale, va celebrato ogni settimana. Ma purtroppo c’è bisogno di una giornata speciale ogni tanto per rimettere al centro dell’attenzione un pilastro fondamentale della nostra esistenza, la nostra prima testimonianza al mondo, che invece consideriamo come cosa secondaria, accessoria, opzionale” ha spiegato il rav annunciando l’iniziativa “Shabbat Project” in programma il 24 e 25 ottobre nell’Italia ebraica.
“Liberandoci da cose che consideriamo strane, antiquate e inadeguate ai tempi pensiamo di esprimere la nostra libertà, genialità e modernità. Stiamo solo gettando via, sotto influssi esterni, la nostra ricchezza, la nostra vera libertà e la nostra dignità. Questo – ha sottolineato – è il momento giusto per ripensare al costo di queste scelte e ai danni che ci procurano. Possiamo trasformare un’identità passiva di angoscia e di facciata in un’identità di gioia e di valori positivi”.
Rav Di Segni ha poi concluso: “In questo momento, con le sinagoghe gremite, abbiamo a disposizione alcuni strumenti formidabili: la forza della preghiera, la forza del pubblico riunito e spiritualmente unito, la forza del giorno di Kippur. Se ci aggiungiamo la forza della teshuvà, che ciascuno di noi può mettere in movimento con qualche domanda dentro di sè, la combinazione diventa irresistibile”.

(5 ottobre 2014)