Pensare il radicalismo islamico

vercelliChe il radicalismo islamista si nutra di una concezione totalitaria delle relazioni sociali, dei rapporti tra esseri umani, è un dato incontrovertibile. Cosa implica questa affermazione? Che esso ritiene gli individui dei meri prolungamenti della propria “comunità”, di un organismo collettivo al quale tutto va ricondotto e, se necessario, nell’eventualità, sacrificato. Se lo intendiamo come un regime politico, allora il riferimento è ai fascismi e al nazismo; se lo vediamo come movimento, allora il rimando è ad una concezione del comunismo che trovava nel bolscevismo il suo completamento. Laddove, però, alla ferrea dialettica tra avanguardie e collettività quest’ultimo assommava il discorso sulla “rivoluzione” come atto perennemente incompiuto. Non si tratta di progenitori diretti, né di precedenti storici, ma modelli antesignani di una qualche rilevanza, sia pure nelle infinite diversità delle traiettorie concrete. Torniamo su questo punto, poiché l’intera costruzione ideologica del radicalismo si basa sul ricorso ad un duplice binario: da una parte, l’enfatizzazione del movimento organizzato – comunque esso si chiami, qualsiasi forma assuma (si pensi ad Hamas o a Hezbollah, due partiti che si pensano e sono vissuti in quanto comunità politiche autosufficienti) – nella sua natura di superamento dello Stato, luogo di corruzione per definizione, trattandosi di una forma di organizzazione che “divide” la comunità musulmana, mentre questa può realizzarsi solo se divelle tutti gli ostacoli, materiali e simbolici, che incontra nel suo cammino; dall’altra, il tema di una “purezza” da raggiungere che si dà solo nella milizia, nel combattimento, nella lotta armata, comunque nell’azione. Due suggestioni non nuove, nel panorama politico ma che, dinanzi al declino della politica partecipata nei paesi a sviluppo avanzato, trovano adesso nuovo respiro, raccogliendo qualche assenso anche in una parte dei cittadini occidentali, attratti da qualcosa in cui credere non solo sul piano ideologico ma attraverso il ricorso attivistico alle vie di fatto. Il proselitismo, infatti, ne è un riscontro che stiamo osservando, sia pure in forme piuttosto contenute, tra le file degli “scontenti” presenti non solo nelle innumerevoli periferie dei nostri paesi. Il fondamentalismo islamista rende dicotomico il rapporto tra le persone, da una parte escludendo dal diritto stesso alla vita gli «infedeli» (così come le dottrine in materia predicano, legittimando la licenza sistematica all’assassinio) ma, nel medesimo tempo, adoperandosi sulla via della conversione, forzata o meno che sia, di chiunque non si opponga attivamente ad esso. Conversione al proprio credo, sia ben chiaro, non alla religione islamica in quanto tale. Non è un caso, infatti, se la natura del suo operare sia quello tipico al fomentatore sistematico di una guerra civile perpetua in campo arabo-musulmano. Con effetti a volte bizzarri, oltre che tragici, poiché l’islamismo si esercita in prima battuta contro le stesse popolazioni musulmane. In una sorta di guerra mediorientale totale e permanente. Sul piano dei parallelismi storici si può obiettare che il rinvio ai totalitarismi europei sia un azzardo, se non una torsione ideologica bella e buona. Non solo poiché ogni esperienza politica è un caso a sé, per tanti aspetti irripetibile, a partire dalla condizioni materiali che la generano, ma anche perché la stessa categoria di «totalitarismo» risulta assai poco fungibile su un piano analitico. E tuttavia, c’è un legittimo ambito, quello della riflessione politica, che invece reclama analogie, ricorsività ma anche discontinuità, per meglio intendere cosa stia avvenendo e avere quindi degli strumenti di valutazione. Il ricorso alla religiosità, in quanto visione complessiva del mondo, in sé conchiusa, funge da collante ad un progetto politico che vorrebbe coniugare il ribaltamento degli equilibri costituiti, quelli generatisi attraverso le sovranità nazionali e il sistema internazionale degli Stati, al rifiuto della modernità socioculturale laddove essa si trovi in disaccordo con la precettistica islamista. L’edificazione di una società islamica “globale”, sull’intero pianeta, in accordo con la morale religiosa rimane per gli islamisti, quindi, l’esclusivo percorso di civilizzazione possibile. La radicalità, da questo punto di vista, indica etimologicamente il rifarsi ad un’unica radice possibile, l’Islam medesimo nelle sue origini più “pure”. Il quale è presentato come entità unitaria benché storicamente sia stato, invece, variamente declinato, anche in modi tra di loro apertamente contraddittori. Comunque sempre competitivi. Poiché la posta in gioco non è mai l’interpretazione ma chi sia legittimano a costituirne la fonte ultima. Non a caso si può parlare di fondamentalismo, al di là della sua dimensione sociologica, storica, politica e sociale, rifacendosi al problema del fondamento di chi decide cosa sia giusto e cosa invece non lo debba essere. L’islamismo radicale ruota intorno a queste sfide, operando in società che non hanno elaborato la separazione – sempre incerta, peraltro – tra la sfera della politica e quella della religione nel processo di produzione di una morale pubblica. E la sua forza, nelle sue molteplici manifestazioni, è tanto più enfatizzata dal momento che i tentativi di dare corpo nelle società arabo-musulmane a un moderno sistema di Stati nazionali, efficacemente inserito nel circuito delle relazioni internazionali, di fatto va oggi fallendo. L’idea radicale sta nella sfida all’egemonia dell’interpretazione, ossia contro le figure che sono tradizionalmente chiamate ad esercitarla, poiché le rivolte dei dominati continuano comunque ad avvenire all’interno di un quadro cognitivo e culturale di riferimento condiviso con il sistema di dominio, al quale si contesta tuttavia la legittimità di continuare a dirsi interprete della realtà. In gioco non è la necessità di un sistema di legittimazione bensì il chi sia deputato a farsene interprete. Non possono essere i chierici di “regime” (gli intellettuali); men che meno le figure istituzionali emerse dallo sviluppo degli apparati della pubblica amministrazione; per non parlare delle élite politiche, descritte come corrotte a prescindere da qualsiasi riscontro effettivo. Così come neanche i sapienti della tradizione ancestrale. Poiché la sovranità dell’interpretazione riposa in Allah stesso, che ne fa però dono a chi riesca nell’intento di meglio cogliere il suo disegno provvidenzialistico, raccordandolo ai bisogni della collettività. In ciò si manifesta, inoltre, la dimensione populista del radicalismo contemporaneo, che dice che a comprendere il messaggio possa essere solo il «popolo», se governato da chi sia «ben ispirato». L’islamismo, infatti, invoca il ritorno alla fede primigenia ma è essenzialmente un moderno movimento di mobilitazione. Di fatto reinventa la tradizione rinviando permanentemente all’ossessione per la sua autenticità. Il suo dispositivo normativo, infatti, è duplice: da un lato rimanda alla ricerca di un passato mitologico da ripristinare in toto; dall’altro dichiara come inesaurita qualsiasi ricerca, definendola insufficiente o inadeguata, a prescindere dagli esiti concretamente ottenuti, di volta in volta. Ragion per cui da ciò deriva la persistente mobilitazione dei militanti e degli aderenti, ai quali è richiesta una spasmodica partecipazione verso un “obiettivo finale” che ancora non è stato raggiunto. E che mai lo sarà, perchè la purezza è una sorta di ispirazione, non una dimensione concreta, Il nocciolo del fondamentalismo, quindi, non sta in ciò che promette ma nella capacità di indurre gli affiliati a cercare di tenere fede a tale promessa, convincendoli della necessità di ripetersi negli sforzi, per adempiere veracemente a tale impegno. Che, come tale, è totalizzante, occupando di sé ogni aspetto della loro esistenza. A conti fatti, nel conflitto tra religione e politica, benché il fondamentalismo si renda interprete della prima come tramite della seconda, ribadendone l’apparente primato e facendosi promotore di una idea di Stato totale a fondamento etico, di fatto ribalta i ruoli e le relazioni di primazia, portando alla politicizzazione totale della religiosità. Detto questo, va aggiunto che la modernità dell’islamismo la si misura non solo nelle istanze ideologiche che lo connotano ma anche nei quadri militanti che ad esso vi prendono parte. Le sue schiere sono spesso composte da giovani di estrazione sottoproletaria, urbana, di fatto vittime dei processi di modernizzazione incompiuta. Le élite dirigenti sono costituite da altrettanti giovani, perlopiù di estrazione sociale piccolo o medio borghese, spesso però in fase di retrocessione nella scala sociale. Per gli uni e per gli altri il dato generazionale si coniuga alla marginalizzazione economica, d’origine, poiché trasmessa dalla famiglia, o acquisita, in quanto derivata dall’avere perso ruoli, status e capacità contrattuali nel mercato del lavoro. Per molti di essi, la formazione religiosa, in origine, è un elemento secondario se non irrilevante. Chi ha studiato ha seguito soprattutto un percorso umanistico o scientifico, ma comunque nella quasi totalità dei casi ispirato ai saperi laici o secolarizzanti. Solo successivamente avviene l’incontro con la mobilitazione politico-sociale di matrice islamista. Anche da ciò nasce quel movimento contro la tradizione che è parte integrante del radicalismo. Il quale, per potersi legittimare, ha bisogno prima di contendere e quindi di sottrarre il potere normativo e di giudizio alle fonti tradizionali dell’Islam, autonominandosi, sul campo, soggetto del cambiamento e convalidandosi autonomamente come autentico interprete della dottrina. Durante la guerra fredda l’islamismo è stato un soggetto relativamente marginale nella scena politica, occupata invece dal confronto tra i modelli di sviluppo promossi dall’Occidente liberaldemocratico e l’utopia reale del comunismo. Neanche all’interno del vasto magma “terzomondista”, per come era venutosi costituendo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, il ricorso alla religiosità come veicolo di produzione e promozione della politica aveva trovato sufficiente riscontro. Semmai, lo sforzo di istituire Stati nazionali, sulle ceneri dei processi di colonizzazione, si era orientato nel senso di trovare nuovi baricentri e nuove fonti di legittimazione oltre la religione in quanto tale, intesa da molti come un elemento non solo tradizionalista, e quindi non in linea con l’idea di movimento collettivo di quegli anni, ma anche quietista, nel senso di acquiescente ai vecchi ordinamenti costituiti. Che erano, perlopiù, di derivazione coloniale. Il progressivo fallimento di questo tentativo ha invece aperto varchi, altrimenti impensabili, per il fondamentalismo islamista. La sua natura è, oggi, quella di pensarsi e di offrirsi come ideologia universalista, in grado di contrastare la globalizzazione mercatista, l’omologazione culturale e il liberismo senza freni delle classi dirigenti internazionali. Ciò facendo, si alimenta di paradossi, che sono alla sua stessa radice: parla un linguaggio inclusivo quando però non contempera in alcun modo il pluralismo culturale, ritenendolo semmai un segno di decadenza; rinvia alla tradizione quando di essa ne mina, per necessità propria, le fondamenta stesse; è innervato dentro i processi di globalizzazione universalista, dei quali ne è per più aspetti uno specchio capovolto, ma pratica, all’atto concreto, politiche fortemente particolariste, ossia concentrate sulla dimensione locale in cui si trova ad operare e sugli interessi che vi sono raccolti (essendo l’Islam un universo di realtà locali, accomunate da un rimando religioso condiviso ma, in buona sostanza, fortemente diversificate al loro interno). Di fatto promuove un modello plurale, cioè rivolto a gruppi, società, comunità tra di loro differenti, ma tutto fuorché pluralista. Ciò che l’islamismo contesta è la separazione tra politico e religioso nei termini di una profonda crisi di legittimità in atto. La quale indica la frattura tra umma, la comunità dei credenti, e Allah, ossia il legame tra giustizia e legittimità, due parole chiave nella definizione del potere. Il governo è «giusto» se ispirato dalla parola divina, la quale si innerva nella Legge religiosa. Mentre storicamente, laddove si celebra la decadenza, il fondamento del governante diventa il potere medesimo. Con un capovolgimento di senso, inteso come catastrofico dagli islamisti. Il potere mal governato è quello empio. L’empietà si basa sull’assenza di legittimazione divina (che conduce alla mancanza di giustizia terrena) ma anche sul quietismo dei governati, che riconoscono come immutabile il potere costituito. Il radicalismo si pone pertanto in rotta di collisione contro questa situazione. Afferma che lo stato delle cose va radicalmente mutato, ristabilendo l’ordine “naturale”, ossia ultraterreno, dei fattori umani. La qual cosa implica l’attivismo dei governati, il loro impegno concreto nel mutamento. Non come atto di libera scelta bensì di servo arbitrio nei riguardi di Allah, ovvero nei confronti dei suoi sinceri servitori raccoltisi nel movimento islamista. All’idea di ordine, quindi, viene sostituita quella di conflitto permanente. Dentro il quale si riannoda il nesso tra legittimità e giustizia. Il riscontro di tale condizione è offerto dall’affermazione militante (e combattente) del movimento. La forza non è un prodotto umano ma un dono che viene dall’alto. Se il movimento vince è perché rappresenta Allah, essendone parte del disegno universale. Mentre il governante empio basa se stesso sul potere-potenza, quello che promana dall’uomo, l’autorità legittima si fonda sul potere-autorità che deriva dall’ultraterreno. Sono questi i tratti comuni in un universo di correnti e gruppi altrimenti non solo diversificati ma anche tra di loro perennemente conflittuali. Così per il Wahhabismo, corrente sunnita ultraradicale, costituitasi nel XVIII secolo per opera di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, con l’obiettivo di ripulire la religiosità islamica dalle “incrostazioni” subentrate dopo la morte di Maometto, come il culto locale dei santi, l’abitudine a tagliarsi la barba, l’uso del tabacco, la diffusione della musica. Da questo insieme di prescrizione deriva e subentra un’ortoprassi che rinvia all’osservanza dogmatica del Corano, che delegittima politicamente i regimi vigenti, che si incentra ideologicamente sul nesso tra purezza individuale e lotta alla corruzione collettiva. La sua diffusione nella penisola arabica giunge fino ad oggi, impegnando la monarchia saudita in una sorta di gioco delle due carte, tra lotta contro le componenti più radicali e accettazione di un tradizionalismo rigidissimo. Il movimento degli «studenti coranici», meglio conosciuti come Talebani, che ha agitato le acque nel decennio trascorso, si innerva invece nella scuola indiana Deobandi, di filiazione wahhabita-saudita, così come i salafiti, anch’essi componente purista dell’Islam sunnita, e i takfiri. E via discorrendo. Infatti, se il radicalismo rifiuta ogni forma di pluralismo civile e morale, intendendoli come fumo negli occhi, è per sua stessa natura plurale dal punto di vista organizzativo. Il suo iperconflittualismo gli deriva anche dal fatto che sulla sedia della ragione vorrebbero essere in molti ad accomodarsi. Per questo non pochi tra di essi, periodicamente, cascano per terra. Con effetti rovinosi.

(4/segue)

Claudio Vercelli

(12 ottobre 2014)