Katja riconquista la sua storia ebraica
Un capolavoro come raramente se ne vedono nel panorama letterario. “Forse Esther”, volume che segna per l’autrice – la 44enne scrittrice ucraina Katja Petrowskaja – un commovente ritorno alle proprie radici attraverso drammi e complessità del Novecento, arriva oggi nelle librerie italiane grazie alla casa editrice Adelphi, abile nel battere sul tempo i grandi editori americani e francesi. Sul numero di Pagine Ebraiche di novembre in distribuzione un primo assaggio di quest’opera brillante e indimenticabile.
Nel grande boulevard di carta che per il fiume dei visitatori della Buchmesse costituisce un passaggio quasi obbligato, l’editore Suhrkamp ne ha fatto una bandiera. Lei a Francoforte si è mostrata appena, come se quello che aveva da dire lo avesse già detto, come se la copertina del suo libro fosse più che sufficiente, come qualcuno che è troppo timido per affrontare l’assalto della folla, o forse ancora e maliziosamente come qualcuno che è troppo grande per aver bisogno di andare a caccia del suo pubblico. In ogni caso nessuno nasconde la consapevolezza di trovarsi di fronte a un nuovo miracolo della letteratura tedesca. Katja Petrowskaja, l’autrice di Forse Esther (che Adelphi riesce in queste ore a mandare nelle librerie italiane in una bella versione di Ada Vigliani battendo sul tempo i grandi editori americani e francesi che se ne sono assicurati i diritti), la piccola ebrea ucraina emigrata a Berlino una decina d’anni fa ha cominciato a studiare il tedesco a 26 anni. Anche se è nota la prodigiosa abilità di chi padroneggia le lingue slave nell’apprendere altre lingue, come ha fatto a sfornare scrivendo direttamente in tedesco quello che in pochi mesi sembra già avviato a divenire un classico della letteratura tedesca? Come ha fatto a stravincere in estate il premio Ingeborg Bachmann, il riconoscimento più prestigioso cui può puntare uno scrittore esordiente di lingua tedesca, assegnato a Klagenfurt, la città di Robert Musil, nel nome della stessa poetessa e scrittrice carinziana che visse e morì come una meteora nella Roma della Dolce vita? Il premio, fortemente voluto da Vienna, ma radicato nel polo austriaco di quell’angolo d’Europa, fra Carinzia, Slovenia e Friuli Venezia Giulia dove si toccano le anime latina, slava e germanica d’Europa, porta in realtà il segno di Marcel Reich-Ranicki, considerato il massimo critico letterario tedesco del Novecento. E il percorso della Petrowskaja è segnato da molti paralleli con quello del grande letterato e giornalista, scomparso nel 2013 e nume tutelare delle pagine culturali della Frankfurter Allgemeine Zeitung. Sopravvissuto della Shoah e combattente polacco del ghetto di Varsavia l’uno, emigrata ucraina di lingua madre russa discendente da famiglie ebraiche travolte dalle persecuzioni e le dittature l’altra. Destini di stranieri che si sono avvicinati all’estrema difficoltà della lingua tedesca fino a domarla tanto bene da divenirne un faro. Si chiamava davvero Esther quella bisnonna che, nella Kiev del 1941, chiese fiduciosa a due soldati tedeschi la strada per Babij Jar, la fossa comune degli ebrei, ricevendone come risposta un distratta rivoltellata? Forse. E dell’intera famiglia, dispersa fra Polonia, Russia e Austria, che cosa ne è stato? Il monolite sovietico conosceva l’avvenire, non la memoria. Per ricostruire quella ramificata genealogia, quel vivace intreccio di culture e di lingue – yiddish, polacco, ucraino, ebraico, russo, tedesco –, la Petrowskaja intraprende, sulle tracce degli scomparsi, un intenso viaggio a ritroso nella storia di un Novecento sul quale incombono la stella gialla e quella rossa, e in cui si incrociano i destini di figure indimenticabili: Rosa, la logopedista di Varsavia, che salva duecento bambini sopravvissuti all’assedio di Leningrado; il nonno ucraino, prigioniero di guerra a Mauthausen e riemerso da un gulag dopo decenni; il prozio Judas Stern, che spara a un diplomatico tedesco nella Mosca del 1932; il fratello Semën, il rivoluzionario di Odessa, che passando ai bolscevichi cambia in Petrovskij un cognome troppo ebraico… Ma indimenticabili protagonisti – avverte l’editore – sono anche i paesaggi: l’immane pianura russa invasa dai tedeschi e le città della vecchia Europa: Kiev, Mosca, Varsavia, Berlino. E i ghetti, i gulag e i lager nazisti. In questo romanzo vero, vibrante, venato di ironia – il migliore che la letteratura tedesca ci abbia dato dopo Austerlitz di Sebald – mondi inabissati risorgono vividi, rapinosi e più che mai contemporanei.
Pagine Ebraiche novembre 2014
(22 ottobre 2014)