Il secondo giorno di festa
Daniel Funaro ieri ha scritto su questa colonna: “Chiederei, sommessamente e gentilmente, ai rabbini di abolire il secondo giorno di Moed fuori da Israele. Vi assicuro che è l’unica grande necessità di cui l’ebraismo sente davvero il bisogno”. Il problema del secondo giorno festivo non è nuovo ed è stato oggetto di discussioni già nei secoli passati. In Italia si pose in particolare a metà dell’Ottocento, quando alcuni commercianti di Mantova chiesero ai rabbini della comunità, per nulla sommessamente o gentilmente ma con insistenza e arroganza, di abolire l’osservanza del secondo giorno di festa, motivando la richiesta con il grave danno economico subito e con il fatto che, a detta loro, la norma non è più rilevante. I rabbini di Mantova rimisero la questione ai più importanti Maestri della terra d’Israele e d’Europa, che all’unanimità risposero contro l’abolizione del secondo giorno festivo. Particolarmente argomentata fu la risposta di rav Moshè Israel Hazan (1808-1863), che da Gerusalemme era venuto a Roma e fu rabbino capo di questa città fra gli anni 1847-1854 (tutto l’argomento, non solo limitato all’Italia, è discusso, con dovizia di particolari e con la citazione della corrispondenza dell’epoca, dallo storico Meir Benayahu, Yom tov shenì shel galuyòt, Gerusalemme 1987). Alla base della domanda di Funaro e di altri che l’hanno posta in passato c’è un fraintendimento di fondo. È vero che all’origine dell’aggiunta di un giorno di festa nella Golah (diaspora), rispetto a quanto osservato nella terra d’Israele (e comandato dalla Torah), vi è il dubbio su quando cada esattamente il Rosh Chodesh (capomese, corrispondente al novilunio) e di conseguenza su quando capitino le feste. In passato venivano inviati messaggeri dal Tribunale di Gerusalemme perché comunicassero in tutti i luoghi della Golah la data esatta del novilunio e delle feste. Nei posti lontani dalla terra d’Israele – non potendo i messaggeri arrivare in tempo a causa della difficoltà dei viaggi dell’epoca – si osservavano due giorni di festa solenne invece che uno (il dubbio non eccede due giorni, dato che il mese ebraico può durare 29 o 30 giorni, ma non di più né di meno). D’altra parte, però, già all’epoca del Talmud il lunario era stato fissato con estrema precisione e il Rosh Chodesh non veniva più stabilito in base alla testimonianza oculare del novilunio, bensì in base a dettagliati calcoli astronomici e ad altre considerazioni (ad esempio, le date delle feste vengono fissate in modo tale che Kippur non cada mai né di venerdì né di domenica, per evitare che ci siano due giorni consecutivi in cui sia vietato cucinare). Il modo di fissare il lunario fu stabilito da Hillel II, nel quarto secolo dell’e.v., e benché i calcoli non siano alla portata di tutti, sono riportati nei più importanti codici legali e con un po’ di pratica sono facilmente eseguibili da chiunque abbia accesso a tali testi.
Da tempo, quindi, non c’è più nessun dubbio sulla data del capomese e delle feste. Stando così le cose, perché allora nella Golah si osservano ancora due giorni di festa? È il Talmud stesso che pone questa domanda (in Betzà 4b), con tali parole: “Ora che sappiamo come fissare il lunario, per quale motivo festeggiamo due giorni?”. E si risponde: “Perché così hanno mandato a dire da là [dalla terra d’Israele]: State bene attenti a mantenere per voi l’uso dei vostri padri”. E perché è bene mantenere le vecchie usanze, quelle dell’epoca in cui il lunario non era stato fissato in base ai calcoli astronomici ma ci si regolava in base alle testimonianze che giungevano da Gerusalemme? Risponde il Talmud: “Può ancora capitare che a causa delle persecuzioni [si dimentichi come fissare il lunario e] si giunga a commettere errori [nella determinazione delle feste]”. Perciò il motivo per cui nella Golah si aggiunge un giorno non è per un dubbio che abbiamo oggi nella determinazione delle feste, ma per la possibilità che tale dubbio possa esserci, in certi tempi o in certi luoghi. Che la Torah venga dimenticata può sembrare una possibilità remota, ma l’esperienza storica del nostro popolo dimostra che purtroppo ciò è possibile ed è successo. Ad esempio, nell’Unione Sovietica del secolo scorso, il livello di osservanza e di conoscenze ebraiche era sceso ai minimi termini e i contatti con l’ebraismo mondiale, in certi anni, erano estremamente difficoltosi. Anche introdurre Tefillot (libri di preghiera) con le date delle feste poteva risultare impossibile. Non c’è da stupirsi se in quei luoghi, a volte, si potesse non sapere esattamente quando capitavano le feste. Il doppio giorno festivo può preservare da errori. Come ha detto, quasi profeticamente, il Chafetz Chaim (Rabbi Israel Meir Kohen Kagan, Polonia 1839-1933) nella Mishnà Berurà (il più importante commento allo Shulchan Arukh del Novecento; 496:1): “Nonostante oggi siamo esperti nella determinazione del lunario in base ai calcoli che possediamo, pur tuttavia i Saggi temettero che forse, a causa delle tante disgrazie e peregrinazioni della diaspora, tali calcoli potessero essere dimenticati e si giungesse a considerare di 30 giorni il mese che ne ha 29 e viceversa, fino al punto di mangiare chametz durante Pesach; per questo (i Saggi) mantennero la norma, fuori della terra d’Israele, come era in passato”.
L’aggiunta di un giorno è una taqqanàt chakhamìm, un decreto dei Saggi del Talmud, come dice espressamente il Maimonide nel Mishnè Torah (“Regole per la santificazione del mese”, cap. 5: 5). In quanto tale, non è possibile modificare tale decreto in base alla decisione di un singolo rabbino, o anche di alcuni singoli rabbini, per quanto autorevoli siano. Una regola fondamentale del diritto ebraico è che una norma fissata da un certo consesso di giudici/legislatori sia abrogabile o modificabile solo da un consesso di importanza maggiore. Solo un Sinedrio, quindi, come quello che istituì tale norma potrebbe metterla in discussione. Scrive rav M.E. Artom z.l. nell’Introduzione al III volume del “Machazor delle Feste secondo il rito italiano”, da poco ripubblicato: “Il Sinedrio è la sola autorità che, secondo la tradizione, possa stabilire quali siano di fatto i giorni festivi. Il Sinedrio che stabilì il lunario fisso decise pure che (…) nella Diaspora si aggiunga un giorno a quelli stabiliti dalla Torà in ricordo di ciò che succedeva o poteva succedere quando non c’era il lunario fisso. Per questo motivo, il dovere di celebrare i giorni aggiunti è assoluto, e non potrebbe essere abrogato, anche in condizioni mutate, se non dopo che si fosse ri-istituito il Sinedrio e questo ritenesse opportuno mutare la normativa stabilita con la fissazione del Lunario”.
Oltre alle suddette motivazioni per l’aggiunta di un secondo giorno festivo, ossia l’eventualità che ancora si possa, a volte, incorrere in errori e il motivo di carattere legale, ci sono altre ragioni. Una di queste è la volontà di mantenere una distinzione fra la Golah dalla terra d’Israele: non per “ricordare” questa differenza (che è di per sé ovvia), ma per sottolinearne la portata. Per quanto molti pensatori religiosi ebrei considerino la Golah non necessariamente secondo un’ottica negativa (la diffusione della Torah in tutti gli angoli della terra è senz’altro un fatto positivo), ciò nonostante la terra d’Israele mantiene, secondo tutte le opinioni, una indiscutibile centralità rispetto alla diaspora, come è evidenziato da numerose norme della Torah e del Talmud: “stare nella Golah” è una condizione che ci si porta appresso, e lo stesso vale per colui che “sta nella terra d’Israele”. Tanto è vero che – senza entrare nei dettagli – l’israeliano che viene temporaneamente nella Golah continua (ma soltanto quando sta in privato) a festeggiare un solo giorno di festa, e il contrario per colui che vive nella Golah e va in Israele temporaneamente. Non è quindi solo una questione geografica, ma esistenziale. Dicono i mistici della Qabbalah e i maestri chassidici che nella Golah è necessario festeggiare un giorno in più per arrivare allo stesso livello di elevazione spirituale procurato dalla festa al quale giungono coloro che vivono (ma non solo fisicamente) nella terra d’Israele. La qedushah (santità) della terra d’Israele è maggiore che al di fuori di essa, e questo spiega perché in Eretz Israel sia sufficiente un solo giorno di festa.
C’è un’altra spiegazione sui vantaggi del doppio giorno festivo. Se ci fosse un solo giorno di festa, a causa della sfericità della Terra e dello sfasamento dei fusi orari, due comunità ebraiche che vivano agli antipodi l’una dell’altra non festeggerebbero insieme la festa se non per una parte del tempo. Con l’aggiunta di un giorno, invece, si realizza una condizione per cui c’è un intero giorno in comune fra le due comunità (vedi il Chatàm Sofèr su Betzà, II ed., di Rabbi Moshè Sofer, Slovacchia 1762-1839, cit. in A. Steinzaltz, commento al Talmud Bavlì, Betzà 4b). Si provi anche a pensare cosa succederebbe se due comunità si trovassero nelle immediate vicinanze della linea del cambiamento di data, una al di qua e l’altra al di là, e ci fosse un solo giorno di festa. L’aggiunta di un secondo giorno festivo permette così di unificare il popolo ebraico, se non nello spazio, almeno nel tempo. Chodesh Tov!
Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano
(24 ottobre 2014)