Torino, al Salone gusto d’Israele
Mi hanno chiamato e io ho sentito la chiamata esattamente nel momento in cui la vocazione al martirio si è risvegliata nei miei precordi e mi è preso un prurito alle mani incontrollabile: all’assalto della cucina comunitaria, mi sono detta, usurpazione degli spazi delle buone signore dell’Adei, sicuramente disperate per l’invasione.
Al telefono: “C’è un gruppo di ebrei israeliani e americani e altro venuti per il salone del Gusto a Torino. Vogliono fare una cena venerdì sera in comunità, puoi dar loro una mano suggerendo qualche piatto della cucina ebraica italiana?”.
Questo mi dicono, e io accetto, obbediente perché curiosa di tuffarmi in questo clima internazionale, dentro alimenti, cibi, e pentolame vario, ma non nel Salone Slow Food, che da tanti anni non sopporto, per motivi profondi che non rivelo, ma anche perché la pazza folla masticante, blaterante e sgomitante non mi sconfinfera proprio più.
Uno dei membri del gruppo eterogeneo che andrò a incontrare, mi telefona dicendomi che sarà cucina di carne e non di latte, come mi avevano preannunciato e per cui mi ero preparata, anche spiritualmente. Andranno, mi dice, in delegazione al mercato di Porta Palazzo, oramai in mani, diciamo così per farla breve, poco consone al sionismo e acquisteranno le derrate necessarie. Il giovane si chiama Hedai, per questo lo ricordo, per il suo entusiasmo saltereccio e quel Dai, che avrebbe dovuto rispettare un po’ di più. Lo so persino io che vuole dire Basta in ebraico.
Ingenua. Arrivo in Comunità, scendo agli inferi, incontro rav Ariel Di Porto, a cui mostro, chiedendo scusa per la blasfemia, la mia trombetta di Albenga che sembra uno shofar, entro nel Sancta Sanctorum gastrico e vengo accolta da saluti entusiasti, abbracci, potenti strette di mano, barbe, non barbe, chippà, non chippà, fazzoletti in testa e non, grembiali e magliette.
Non basta; lancio un rapido sguardo in giro e quasi mi accascio. Montagne di verdura e frutta, sacchi di erbe, rapanelli, erbette e spinaci che rigurgitano dai sacchetti, sedani rapa e cime di rapa, cavolfiori verdi, pere, mandaranci, pomodori ciliegini, datterini, cuori di bue e a grappolo, zucche, zucchini, olive crude nere e tonde che sembrano ciliege, mazzi e mazzi di prezzemolo, di menta e di basilico, patate nere, peperoni corno di bue, etc etc…
La cucina è un corridoio strettino diviso in due parti; basarì e halavì; un forno ciascuno. Ma il dramma è che se funzionano le piastre dalla parte basarì, non funzionano dall’altra. Un enorme pentolone giace sulla piastra carnivora occupando tre fuochi, chiamiamoli così. Null’altro si può fare. I forni sono occupati da teglie di verdure. Grandi recipienti contengono verdure a mollo già tagliate e pulite, finocchi, puntarelle, radicchi, insalate, che ingombrano i minuscoli piani lavoro. Cipolle di tutti i colori rotolano qua e là affettate da mani abili. Ogni tanto qualcuno si presenta continuando ad affettare con mani professionali, con quel movimento abile e preciso, che se io lo facessi mi taglierei unghie e dita come niente. Sacchi pieni di spazzatura vengono portati via ogni poco.
In un angolo su di una lavagna è scritto il menu. La mia anima da profia pignola intollerante sobbalza. Mi rendo conto che l’andamento della cosa è stato così: prima l’orgia degli acquisti più disparati, spinta dalla bellezza, dalla quantità, dalla novità dei prodotti in vendita e dalla disponibilità economica…, poi il menù è stato costruito sugli alimenti, di molti dei quali non esiste la conoscenza del trattamento che dovrebbero avere. Protesto, squittisco. Non riesco a convincerli che le erbette o costine non sono insalata. Che i carciofi sono i primi, che sono duri e che non si possono fare fritti, che gli asparagi sono fuori stagione e sono troppo pochi per servirli interi e per di più crudi. Nissimi, che dirige il traffico, non si convince e intanto asserisce con vigore che la migliore cucina ebraica è quella ebraica tripolina o giù di lì.
Vedo in un angolo dei bellissimi porcini, pitriòt di forma perfetta. Il mio cuore piange quando vengono tritati, e ficcati in forno per fare poi il risotto. Bah.
Mando a comprare delle melanzane, che stranamente non sono state acquistate e della frutta secca; intanto mi affidano un certo numero di polletti pallidi, bianchicci, smunti e ancora mezzi surgelati. Mi guardo intorno con l’espressione che chiede pietà e subito un giovane alto, magro e barbuto si mette a mia disposizione; è Jeffrey da New York, che possiede una Gefilteria e parla un americano velocissimo e strettissimo. Tagliamo i polletti, li passiamo sotto l’acqua tiepida per togliere i pezzi di ghiaccio e via. I pezzi di pollo massaggiati con sale, aglio e pepe (manca il rosmarino nonostante tutte le erbe che hanno comprato) sono accomodati dentro teglie mollicce; giù olio e mi impadronisco del forno con prepotenza. Poi aggiungo man mano, scottandomi, pezzi di cipolle e di limone, di carote, prugne e albicocche secche, e all’ultimo spicchi di mandaranci in mancanza di aranci.
Poi tocca alle sardine che ho ordinato per farle in saòr. Un colpo: sono tutte da aprire e pulire. Il mio angelo custode Jeffrey, che se ne intende, data l’esperienza gefiltefishica, le pulisce con pazienza. Poi Renanà ci aiuta ad infarinarle. Il solito pentolone sobbolle di cholent al vino e non c’è spazio per friggerle. Lo sposto in un angolo e procedo. Le friggo e nel mentre appare Noalita, che possiede un bar ristorante a Tel Aviv. Continua a friggerle, mentre in un cantuccio minuscolo tento di far appassire le cipolle, a cui aggiungo uvetta ammollata e aceto squisitamente kasher. Strato su strato le sarde in saòr sono pronte, anche se in realtà dovrebbero stare in saòr almeno per una giornata intera, mentre invece le melanzane da fare alla giudìa, in concia, giacciono miserevolmente in una teglia, passando da un forno all’altro, indurendosi tra i salti di temperatura. Tali e quali i carciofi, pieni di barba e di dure foglie, che tentano di ammorbidirsi in qualche angolino di caldo, senza speranza. Nel frattempo faccio una piccola bagna caoda per condire le puntarelle.
Spuntano da ogni dove nuovi personaggi, la Babele delle lingue è assordante, che poi le lingue sono solo tre: ebraico dall’alto volume, inglese velocissimo e italiano. In realtà l’italiano è pochino e si esercita nei miei improperi e con Adam, piccolo giovane americano, che ha studiato cucina in Italia e ora lavora nel Connecticut in una casa di riposo.
La matronale e bella Shlomìt si muove agilmente nel gran bailamme, un ricco, felice, veloce balagan della migliore marca giudìa, anzi per essere più precisi israeliana, a cui mi sono adeguata, mi accorgo, senza poi grande difficoltà, per merito anche dell’esercizio ginnico per passare e far passare. Questo ghetto, questo cortile improvvisato, dove tutto sembra senza forma e in procinto di tracollare, d’improvviso si ferma. È shabbath.
Si va al tempio, e io sento di puzzare di cibo, come una cucina stantia, anzi principalmente di pesce fritto e cipolle. Ma al ritorno in sala da pranzo, senza che me ne sia accorta, la shulchan è aruch, la sala è gremita di gente appartenente a questa Roi Community che poi andrò ad approfondire su Internet, una quantità di gente superiore ai quarantacinque che mi avevano prospettato. Ma tanto, come si dice qui in Piemonte “a iè da mangè per i crìn”, frase ebraicamente poco corretta.
In mezzo ai tavoli oltre a challòth, acqua e vino, sono miracolosamente comparsi piatti, piattini e coppette di ogni ben di Dio, su cui poso i bei fiori di nasturzi portati dal mio Ganeden, mezè strampalati in cui sono accomodate le interpretazioni israeliane del nostro Mahanè Jehudà torinese: cime di rapa gustose e durissime, olive cotte ma pur sempre molli, cavolfiori al forno pur sempre duri, carciofi buoni ma, come diciamo noi in famiglia, mangia e sputa, asparagi addomesticati da una salsa all’uovo sodo suggerita a Shlomìt, sarde in saòr, zucchine e melanzane in concia, ma anche coppe arancioni di tersci un po’ simile alla zucca sfranta, coppette rosse di matbucha e pesci grossi in hraimi. Compaiono quindi il mio pollo e lo stufato di Nissimi, buonissimi e saporiti insieme però ad un risotto sfatto dove si intravedono frustoli scuri, i bei pitriòt scomparsi. Si beve, si mangia, si parla, si grida, ci si complimenta per il gusto e la fatica. Ci si ringrazia, mi ringraziano e io faccio smorfie di timidezza e mi schermisco, ma unico, dico unico difetto, oltre alle mie solite irrinunciabili critiche da ebrea italiana vecchietta e stizzosa, lì è proprio shabbath. Niente fotografie da conservare o condividere su Facebook, tanto per dirne una. Fatico a ricordare i nomi ma non facce, parole, cibi e risate.
Amèn
Roberta Anau
(27 ottobre 2014)