Periscopio – La poesia di Ariel Viterbo
Come sarebbe bello, utile, rinfrescante, per la nostra opinione pubblica, quotidianamente bombardata da un’informazione superficiale e deformante, spesso improntata a pregiudizio, freddezza, ostilità, infarcita di stereotipi e luoghi comuni, se i nostri media dessero, ogni tanto, qualche informazione sulla variegata realtà degli Italkìm, gli ebrei italiani che hanno scelto di vivere in Israele, onorando entrambi i Paesi col loro lavoro, il loro impegno, la loro creatività. Una minoranza particolarmente vivace e attiva della popolazione israeliana, caratterizzata – a differenza di altre categorie di immigrati, provenienti da mondi tradizionalmente ostili, come i Paesi arabi o quelli dell’Est – dalla tenace persistenza di un forte legame con la terra d’origine, di cui gli Italkìm custodiscono e promuovono alacremente le tradizioni, la lingua, la cultura. Se si avesse almeno una vaga conoscenza di cosa hanno realizzato questi nostri concittadini in tanti terreni – l’educazione, le arti, le scienze -, se si sapesse un po’ quali traguardi hanno raggiunto, superando quante difficoltà, a prezzo di quali sacrifici, forse si userebbe un po’ più di prudenza prima di pronunciare rozzi e sbrigativi giudizi su Israele e la sua variegata popolazione: un popolo fatto di mille popoli, che solo la cecità dell’ignoranza o dell’odio può appiattire in un’unica, fantasmatica entità, tanto malvagia quanto irreale.
In Israele c’è un piccolo, grande pezzo d’Italia: una cosa che si può dire anche, certamente, per diversi altri Paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Venezuela…), ma difficilmente per il mondo arabo.
Queste considerazioni scaturiscono dalla lettura di un prezioso e delicato volume di poesie, intitolato “Tòcchi”, recentemente pubblicato per la Cleup di Padova, che ci pare davvero da segnalare per l’intensità e la suggestione delle immagini, il rigore e la felicità delle scelte linguistiche, il controllo e la misura nell’affrontare tematiche aspre – dolore, assenza, perdita, solitudine – con parole limpide e serene, scevre di ogni retorica e convenzione. L’autore è Ariel Viterbo, nato nel 1965 a Padova, emigrato ventenne in Israele, dove lavora presso la Biblioteca Nazionale di Gerusalemme, già autore di un’altra apprezzata silloge, “Dimenticarsi”, apparsa nel 2010 per la GDS Edizioni.
Diamo la parola al poeta, proponendo i versi di due dei suoi componimenti. “Senza”: Ho perso il cucchiaio / per misurare dolore e piacere / li mescolo a occhio / a volte la mano trema / e il bicchiere è colmo / dolce di dolore / amaro di piacere. Prego per troppe anime /graffiate dalla pioggia / senza sapere le parole / da dire al Dio che c’è / ma non si vede mai. Muto, Lo benedico / prima di ogni sogno / di ogni cattivo pensiero. “Traversi”: C’è un verso che hai dimenticato, / un altro sparito da tempo / ma tutto sommato / il tuo taccuino è pieno /fino all’orlo.
Basterà una goccia di rugiada / perché tutto si sparga sul tavolo, / inondi la piccola casa / già colma di sogni sotto vuoto, /di sguardi fissi su quell’albero / che si sveste e riveste / per farti sentire che stai morendo.
Basterà una stilla di lacrima / se finalmente potrai versarla: / di colpo si apriranno i cuori, / la luce si farà solare e amica, / cadrà il muro storto che ti copre, / un vento birichino / spazzerà la polvere, / antica come le mani che hai. Però lo sai bene / tra il verso dimenticato / e quello sparito / c’è posto solo / per il verso / che stai scrivendo.
Francesco Lucrezi, storico
(29 ottobre 2014)