Qui Torino – Tradurre Primo Levi
“In un’altra lingua”, questo il titolo della sesta edizione della Lezione Primo Levi, appuntamento annuale promosso dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi che ha l’obiettivo di alimentare il dibattito sul noto autore e di portare alla luce nuove sfumature del suo pensiero.
Quest’anno la protagonista è la lingua, o meglio i rapporti tra le varie lingue e quindi il complesso ruolo del traduttore. Le riflessioni su questa tematica nascono dal progetto di pubblicare una versione tradotta in inglese dell’intera opera di Levi. A presentare l’iniziativa sono Ann Goldstein, traduttrice e editor al New Yorker e Domenico Scarpa, linguista e consulente letterario del Centro.
Il tema della lingua è centrale in tutte le opere di Levi, al punto da sostenere che in ogni suo libro sia possibile ritrovare un linguaggio differente. “Levi – spiega Ernesto Ferrero, presidente del Centro – può essere definito come un grande produrre di sistemi comunicativi interconnessi”. Per questo tradurre i suoi scritti richiede uno sforzo tutt’altro che minimo. Ann Goldstein sostiene che per compiere una buona traduzione sia necessario trovare il giusto bilanciamento tra una traduzione letterale e i meccanismi che soggiacciono a ciascuna lingua, ma soprattutto sottolinea la necessità di tener presente la distanza culturale a cui è soggetto un lettore in questo caso non italiano. Il linguaggio è lo strumento con cui l’uomo forma pensieri, sentimenti, ma è anche portavoce di memorie collettive. Ecco che viene delineato il ruolo delicato del traduttore, che non si limita solo ad accostare due lingue, ma cerca di fonderle.
“Lo stesso Levi – spiega Domenico Scarpa – nel testo Tradurre ed essere tradotti, affronta la tematica della diversità delle lingue e del fatto che da un attrito linguistico possa nascere un attrito razziale: ogni straniero è visto come un nemico. Il traduttore perciò assume l’importante compito di limare e limitare tale pregiudizio. Ed ecco che tradurre diviene un lavoro umano e umanitario che diminuisce la stranezza dello straniero”.
Scarpa definisce la lingua di Primo Levi democratica, in quanto aumenta la quantità di verità visibile. “Se questo è un uomo”, sostiene Scarpa, è a sua volta una traduzione: non è forse lo stesso scrittore a compiere una traduzione rispetto a ciò che ha vissuto? Levi con le sue opere amplia il territorio del dicibile e parlando di Auschwitz rompe il silenzio. Il testimone occupa una posizione difficile: parla per colui che è stato sommerso. Il traduttore tenta qualcosa di simile, facendo leva sulla necessità pratica di diffondere le opere di un autore, a scapito dell’impossibilità teorica di una simmetrica traduzione. Il traduttore tenta di universalizzare il messaggio di chi scrive, senza annacquarlo.
L’autore lavora su un terreno che è proprio della connotazione, cioè stratifica i significati su più livelli, rendendo parte di essi impliciti. Compito del tradurre è quello di esplicitare l’implicito, provando ad andare oltre il semplice testo. Il traduttore è prima di tutto un lettore, solo con una dose maggiore di accuratezza.
Forse se parlassimo tutti una stessa lingua non ci sarebbero problemi di traduzione, non si correrebbe il rischio di allontanarsi anche solo di pochi passi dal testo originale. Ma la realtà è diversa e il rischio di allontanarsi dall’autore è controbilanciato dallo sforzo puro e sincero di un interprete prima e di un traduttore dopo. Non è forse il lettore stesso un interprete e traduttore a sua volta? C’è sempre una buona dose d’implicito in un testo. I traduttori sono dei lettori meglio equipaggiati che compiono il loro lavoro con occhio e orecchio attenti, assolvendo un compito non meno importante di quello dell’autore. Danno infatti l’opportunità a qualcun’altro dall’altra parte del mondo di avere quantomeno la possibilità di leggere, di interpretare, di svelare l’implicito di un autore che se no rimarrebbe nell’ombra.
Alice Fubini
(31 ottobre 2014)