Nugae – Taccuino smeraldo
Adoro come deve vedermi la gente in questo momento. Dunque, c’è una ragazza che indossa una mantella nera e una collana con un po’ troppi brillantini, e scrive china su un taccuino verde smeraldo, mentre sorseggia cappuccino decaffeinato in modo eccessivamente lento seduta al tavolino di un bar in una sera d’autunno. È bello perché sembra l’inizio di un romanzo in cui la fanciulla rivelerà la sua stoffa di eroina. Oppure una scena di vita quotidiana della Francia di inizio ‘900 in qualche bistrot frequentato da artisti e intellettuali. Si capisce che ha il suo fascino. In realtà ne avrebbe di più se fosse davvero un elegante caffè letterario e non il bar semivuoto di una stazione, ma bisogna accontentarsi. Vorrei così tanto dire che lo faccio spesso, ma nel quadretto c’è sempre un computer a rovinare tutto. Sebbene sia una grande fan della scrittura a mano – lo testimoniano pile di quaderni riempiti di lezioni universitarie, bozze di articoli poi inviati per email, ma nel numero maggiore di annotazioni varie ed eventuali – purtroppo questo specifico idillio risulta un po’ démodé anche per me. La verità è che normalmente nemmeno mi verrebbe mai in mente. È bensì il risultato dell’attesa di un treno per un’intera ora in una stazione di quelle piccolissime e dunque senza negozi dove comprare camicette di cui non c’è alcun bisogno ma neppure una rivista, in mancanza di batteria del cellulare e con un libro già finito all’andata. L’unica risorsa che la borsa inspiegabilmente troppo pesante offre è il taccuino di cui sopra, immancabile per la ragione di cui sopra. Non c’è un romanzo da cui trarre nuove ispirazioni, non c’è un giornale da cui apprendere scoop, non c’è internet a produrre qualsiasi cosa. Persino le pareti grigioline del bar non contengono un singolo quadro di cui pensar male. Eppure tre pagine sono già piene. Alcuni la chiamano grafomania: forse, ma è piuttosto radical chic come sindrome. Anzi, in realtà c’è qualcosa di molto sano e bisognerebbe farlo più spesso. Perché si è costretti a pensare senza stimoli esterni, che non è difficile ma non ce n’è mai occasione. Perché si riscopre il piacere della scrittura fine a se stessa, senza scopo né pressione, solo paroline una in fila all’altra che con un po’ di fortuna diventano una storia o un pensiero, e con molta fortuna magari pure letteratura. E perché si gode fino in fondo il gusto della scrittura a mano, così bella e personale come le impronte digitali o gli orecchini preferiti, che avrei voglia di pubblicare dirette queste pagine di quadernino invece che un ennesimo testo pieno di errori di battitura. E poi c’è quel pizzico di brivido, perché se mi si rompe la matita adesso mi toccherà bere altri dieci cappuccini decaffeinati.
Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
(2 novembre 2014)