Pensare il radicalismo islamico / 7

claudiovercelliGli approcci radicali, onnicomprensivi, totalizzanti alla religiosità islamica sono vecchi quanto la sua stessa origine, quattordici secoli fa, ma l’islamismo più recente, come già abbiamo avuto modo di dire, si genera in quanto filiazione oppositiva al movimento della «rinascita araba», al-Nahda. Di quest’ultimo, in buona sostanza, coglie alcuni aspetti, a partire dall’urgenza di un confronto diretto tra Islam e modernizzazione socioculturale. Ma se per i riformisti fondamentale era una revisione del primo alla luce della seconda, per i radicali, invece, valeva il principio esattamente opposto. Già con un pensatore come il libanese Muhammad Rachid Rida (1865-1935), il maggiore esponente dell’attivismo politico della cosiddetta «restaurazione», che si rifaceva ad un’epoca d’oro dell’Islam, questo elemento emerse con indiscutibile nettezza.

Prossimo al movimento dell’hanbalismo, una delle quattro scuole giuridico-religiose sunnite, quella che ha maggiormente influenzato il salafismo, dinanzi alla progressiva dissoluzione dell’Impero ottomano divenne il sostenitore di una posizione che auspicava l’emergere di un’unica nazione arabo-musulmana, con il ritorno del Califfato, l’istituto universale “tradito dai turchi”. In tale chiave, Rida sostenne la superiorità delle comunità arabe su quelle sì islamiche ma di altra lingua, affermando che la rinascita islamica sarebbe passata inevitabilmente attraverso la guida degli arabi stessi. Dopo la costituzione dell’egemonia dei Saud sulla Mecca, egli divenne il difensore di questa linea dinastica, ritenendo che il modello di stato islamico instaurato sull’Arabia costituisse un esempio da seguire un po’ ovunque. Dei Fratelli musulmani, nati ad Ismailia, in Egitto, nel 1928, e devoti al principio per cui «il Corano è la nostra Costituzione», già si è avuto modo di dire. Significativo è comunque il fatto che il vero tornate storico rimanga per tutti l’abolizione del Califfato da parte dei turchi nel 1924. Poiché è a partire da quella data che il radicalismo islamista inizia a prendere corpo in quanto movimento politico moderno, ovvero inserito all’interno dei processi che investono l’intero Mediterraneo, l’Africa Sahariana e subsahariana e l’Asia musulmana. Laddove vi è la presenza occidentale, o un qualche robusto riflesso di essa, si innescano fenomeni di trasformazione che investono la sfera politica, le danno forma e sostanza e trovano nella reazione integrista uno dei possibili approdi. Che poi i modi di essere radicali, sul versante islamista, mutino nel corso del tempo è non meno vero. Radicalismo, da questo punto di vista, non è necessariamente immediato sinonimo di terrorismo, come invece ci siamo abituati a pensare. Ma di certo rimane il fatto che la radicalità invita all’opposizione e l’opposizione è sempre e comunque una forma di militanza attiva, nella quale sono compresi anche gli atti di ostilità dichiarata.

Chi è allora, ai giorni nostri, un islamista? Senz’altro colui che ritiene che esista una sola strada praticabile nell’esistenza collettiva, ossia nella sfera pubblica, quella politica e amministrativa ma anche dei costumi sociali e delle abitudini culturali, attribuendola all’islamicità che in sé conterrebbe tutti i valori, i significati e le condotte necessitanti all’uomo contemporaneo. In questa definizione sono compresi un vasto insieme di comportamenti, non necessariamente coincidenti tra di loro, dalla predicazione persuasiva all’atto violento, ma tutti accomunati dal convincimento teocratico dell’unicità della fede, della superiorità assoluta di quella islamica, della inaccettabilità di un ordinamento politico che non sia informato a rigidi criteri religiosi. Ripetiamo ancora alcuni concetti, poiché è importante metterli a fuoco. Nel suo insieme l’islamismo radicale, o se si preferisce il fondamentalismo musulmano, è un’ideologia politica, fondata sul ricorso – come strumento di autolegittimazione – alla religiosità, che afferma di mirare ad instaurare ovunque un unico Stato a matrice islamica, governato per il tramite dell’applicazione della Sharia. Attraverso esso intende unificare l’umma, la comunità dei credenti, ossia di quanti hanno ricevuto e accolto il verbo divino per il tramite della figura del profeta Maometto.

Detto questo si aprono le infinite strade dell’interpretazione. La nozione stessa di Sharia, parola araba tradizionalmente tradotta come «legge coranica», in realtà presenta molteplici accezioni, spesso tra di loro anche in contrasto. Così come in competizione è la considerazione sul grado di effettiva applicabilità di un’ortoprassi a società contemporanee basate sulla mobilità, lo scambio e l’ibridazione. Il radicalismo islamico, nel suo ossessivo rifarsi ad un’unica, possibile via, quella da esso stesso dettata, rivela la sua intima natura di movimento avverso al tradizionalismo religioso, che rifiuta per contrapporvi, invece, l’idea di militanza.

È Sharia, nell’accezione comune tra i musulmani, ciò che costituisce «Legge» (per meglio dire, sul piano dei significati, la «giusta strada»), derivante dal fiqh, la scienza della giurisprudenza islamica, che costituisce lo sforzo concreto di accordare alla volontà di Allah l’agire umano. Ma lo è anche, su un piano ben più ideale, se non strettamente metafisico, il convincimento che la Legge divina sia in sé non conoscibile, e quindi ben poco, o per nulla, traducibile in un corpo di norme di diritto positivo. In paesi come l’Iran e l’Arabia Saudita prevale tuttavia l’impostazione che ritiene la Sharia come un vero e proprio codice di disposizioni destinate a regolare dettagliatamente la vita degli individui. Tartufescamente, i movimenti radicali si inseriscono nel solco di questo secondo approccio. Ad essi infatti giova, dinanzi alle sfide della globalizzazione, presentarsi come i depositari di istanze identitarie, basate sulla contestazione a sfondo religioso.

Alle sfide dei tempi presenti si risponde indicando nel ritorno ad una “moralità” assoluta, fondata sui principi religiosi, l’unico percorso presentato come concretamente attuabile. Benché i movimenti radicali siano a loro agio nell’agone internazionale, e si presentino sempre e comunque come l’espressione “autentica” di un processo universale, la totalità di essi è portatrice di interessi particolari, ovvero legati a gruppi di pressione e a rapporti di forza collocati territorialmente in ambiti estremamente circoscritti. La Libia di questi anni, dopo la scomparsa del rais Gheddafi, garante di alleanze tra tribù preesistenti alla fondazione della cosiddetta «Grande Jamāhīriyya araba, libica, popolare e socialista», il regime dittatoriale da lui istituito dopo il colpo di stato del 1969, ne è un esempio in controluce, attraverso il suo spezzettamento clanico, dove ognuno rivendica a sé la palma della legittimazione nel rappresentare l’intera collettività dei credenti.

Questo cortocircuito, l’ennesimo, non deve stupire poiché tutto il fenomeno islamista si gioca sul paradosso tra rimando ad una dimensione condivisa (l’identità filtrata attraverso l’appartenenza religiosa, intesa come una sorta di sfera assoluta, non contrattabile) e pragmatismo degli interessi in gioco. Anche per questa ragione il radicalismo islamico alimenta una guerra civile permanente inframusulmana. La questione del conflitto israelo-palestinese attraversa, da questo punto di vista, tutte le vicende legate all’evoluzione del milieu islamista. Se è vero che il bersaglio specifico di buona parte dei gruppi militanti rimangono i gruppi dirigenti nazionali dei paesi musulmani, la lunga durata del confronto tra la comunità arabo-palestinese e quella ebraica prima e israeliana poi, è una sorta di suggello nel medesimo tempo simbolico, ideologico e teleologico delle ragioni del radicalismo. In sé raccoglie, come una sorta di precipitato onnicomprensivo, tutte le dinamiche perverse dei conflitti mediorientali. A partire dall’investimento di significati – molto spesso impropri – che su di esso sono stati fatti nel corso del tempo. È per eccellenza, dal punto di vista islamista, la sintesi dell’«empietà». E diventa un vero e proprio campo semiologico, ossia un circuito di simboli potenti, pervicaci, ripetuti indefinitamente – oltre che terreno concreto di scontro – su cui costruire le proprie narrazioni. Ma è anche lo strumento attraverso il quale riproporre la bandiera della lotta anticoloniale, dopo i fasti trascorsi degli anni Cinquanta e Sessanta, quand’essa era stata invece assunta dalle élite laicizzanti del Terzo Mondo.

Poiché tutto l’immaginario islamista e, in immediato riflesso, orientale, si nutre del rapporto di contrapposizione al «colonialismo» del passato come di quello presente. D’altro canto, i movimenti politici dell’area musulmana si sono costituiti in un rapporto di filiazione, che fosse da intendersi come osmosi così come rifiuto, con le spinte innescate dalla presenza occidentale. Già durante la Prima guerra mondiale l’azione delle due grandi potenze regionali, la Francia e la Gran Bretagna, aveva segnato i destini dei territori abitati, a grande maggioranza, dalle popolazioni musulmane. Erano anni dove, con l’eccezione dell’Egitto, dell’Iran e della Turchia (insieme, per certi aspetti, al Marocco), era difficile dire dove si ponessero le frontiere e quali fosse le autorità in grado di governare i territori. La pressione occidentale si tradusse invece nella divisione e nella ripartizione di questi ultimi, inaugurando la stagione degli Stati nazionali.

Sempre più spesso, quindi, il termine «colonialismo» (così come poi, successivamente, la parola «imperialismo») divenne sinonimo non solo di indebita ingerenza, di politica di intromissione e di spoliazione, ma anche di prassi di divisione tra gruppi e comunità che si idealizzavano come i figli di una trascorsa, grande fratellanza. L’elemento galvanizzante di questa rilettura, per lo più del tutto immaginifica, del proprio passato (siamo comuni discendenti da una medesima radice; gli «altri» sono qui solo per distruggerla), è ciò che a tutt’oggi contribuisce a rendere accettabile, agli occhi di molti osservatori, l’intrinseca violenza che pervade l’azione dei movimenti radicali. Non è solo il fattore che permette di esercitare quella condiscendenza di giudizio che invita a pensare che, in fondo, la violenza propria è esclusivamente una risposta alla forza illegittima altrui, ma anche lo strumento che induce a ritenere che sia solo il ricorso ad essa a potere generare la propria storia. La qual cosa viene intesa non esclusivamente come un necessario pareggiamento dei conti per il passato ma anche il viatico decisivo per la costruzione del futuro. Senza violenza, infatti, il radicalismo non potrebbe darsi come movimento collettivo.

(7/segue)

Claudio Vercelli

(2 novembre 2014)