Abel Balbo si racconta a Pagine Ebraiche “Nel calcio la religione è troppo spesso esibizionismo”
“Quando il trascendente conquista gli stadi”. È il titolo con cui aprivamo il dossier Sport pubblicato sul numero di agosto di Pagine Ebraiche. In prima pagina le braccia al cielo di David Luiz, simbolo di un Brasile attraversato in quei giorni da fermenti agonistico-spirituali propagati dai media nei cinque continenti. Sport e religione: una narrazione sempre più attuale, un tema ormai proropente sulla stampa sia italiana che internazionale.
Tuttavia c’è chi pensa che esistano distorsioni da correggere nel rapporto tra pubblico e privato. È la tesi di Abel Balbo, ex centravanti della nazionale argentina e grande protagonista della Serie A a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. Gli appassionati lo ricordano per le numerose gioie date ai tifosi di Roma, Fiorentina, Parma e Udinese ma anche per il modo intenso e raccolto in cui ha sempre professato il proprio credo. Braccia rivolte al cielo, ma estrema sobrietà nei gesti e nessuno spazio all’apparenza fine a se stessa. “Non mi piacciono gli esibizionismi e chi vive la religione in questo modo. Cristiani, musulmani o ebrei non fa differenza – dice Abel – gli sportivi lancino piuttosto messaggi positivi. È un’opportunità da non sprecare, soprattutto in tempi difficili come questi”.
Cinque anni in giallorosso da leader, poi il ritorno a fine carriera. E la decisione di fare di Roma il tuo punto di riferimento. Soddisfatto della scelta?
Questa città mi ha dato molto da un punto di vista sia professionale che umano. E con lei tutti i posti in cui ho giocato: un affetto che porterò sempre nel cuore. Del gruppo degli argentini di quella Serie A che in molti hanno amato penso di essere rimasto l’ultimo a vivere ancora in Italia. Gli altri sono tornati a casa, io la mia l’ho trovata qua. I ricordi di quell’epoca, indimenticabile e forse irripetibile, sono però sempre vivi.
Sembri guardare con una certa nostalgia ad allora…
Sì, è vero. Era una Serie A molto più competitiva e affascinante. Eravamo l’elite, oggi invece non vuole venire più nessuno. È una crisi non solo sportiva ma anche di natura etica e morale: una volta c’erano più amicizia e solidarietà tra colleghi, sentimenti che invece oggi non vedo così diffusi. Il problema è che servirebbe una pulizia generale del sistema calcio, ma non sono tanto sicuro che arriverà. L’importante è essere comunque consapevoli della propria strada e non discostarsene mai.
E la tua qual è?
Il calcio è ancora il mio mondo, anche se per persone come me non è facile. Se sei onesto diventi pericoloso, non ti vogliono. Io comunque non mi arrendo e vado avanti a testa alta: voglio affermarmi anche come allenatore.
Nell’immaginario collettivo sei riconosciuto non solo come un campione ma anche come un uomo che ha saputo conciliare capacità tecniche, valori, spiritualità. Che sentimenti ti suscita la crescente attenzione al tema religioso nel racconto di eventi sportivi?
Mi sento spesso a disagio. Non sopporto infatti gli esibizionismi e chi vive il trascendente come mero fatto scaramantico.
Lo si vede sempre più spesso: si sfrutta il fatto che la religione sia “di moda” e, tramite questa, si perseguono obiettivi di sola ed esclusiva visibilità. Lontano dalle telecamere la si ripone invece in un angolo e così pubblico e privato difficilmente finiscono per coincidere. Eppure avremmo una grande opportunità.
Quale?
Gli sportivi di fede, qualunque essa sia, dovrebbero evitare i protagonismi ed essere sempre più testimonial di pace e fratellanza. Cristiani, musulmani, ebrei: non fa differenza. L’importante è sforzarsi di lanciare messaggi positivi ai tanti che ci seguono. È un’opportunità che non va sprecata, soprattutto in tempi difficili come questi.
E tu come declini questo impegno?
Non mi sono mai fatto problemi a parlare di religione sui giornali e in televisione. Sono stato anche preso in giro per questo ma fa lo stesso, francamente non mi interessa. Sono dell’idea che la religione debba unirci oltre ogni specifica appartenenza e mi auguro che questo venga colto da un numero sempre più ampio di persone. Io senz’altro continuo nel mio percorso.
Una carriera straordinaria, tanti momenti folgoranti. Quale il più significativo?
È difficile individuarne uno, ne ho viste tante. Forse il goal nello spareggio tra Argentina e Australia per accedere alla fase finale dei Mondiali del ’94. Tornavo a giocare per la Seleccion dopo due anni, fu una soddisfazione incredibile. In generale, ogni attimo con la maglia biancoceleste è stato caratterizzato da emozioni particolari. E poi che compagni di avventura: Maradona, il più grande. E personaggi cui sono rimasto legato anche una volta appesi gli scarpini al chiodo come i miei amici Chamot, Sensini e Batistuta. Difficile inoltre descrivere i brividi che si provano pochi secondi prima del fischio d’inizio, nel momento in cui suona l’inno nazionale. È il momento più bello. È il calcio che amo.
Adam Smulevich da Pagine Ebraiche novembre 2014
(4 novembre 2014)