Setirot – Incontri
A New York, il 10 novembre, al consolato italiano, la Comunità ebraica di Venezia e Venetian Heritage annunceranno un grande restauro del Museo ebraico per l’anniversario dei 500 anni del Ghetto. Essendo io il frutto di genitori e nonni veneziani, la notizia non può che farmi immenso piacere (oltre a tutto il restauro del Museo è soltanto uno dei numerosi e importanti progetti studiati e messi insieme per questo particolare compleanno). Il giorno dei mazal tov e delle celebrazioni – il 29 marzo 2016 – non è proprio dietro l’angolo, il lavoro da fare è ancora parecchio, sia in termini di raccolta fondi che di elaborazione di idee. Le decine di migliaia di turisti, la maggior parte dei quali “foresti”, che ogni anno girovagano per le calli, i campi e i campielli del Ghetto sono stati, e sono, la spinta vitale che ha condotto una kehillà sempre più esigua a investire sul proprio futuro. Guardare avanti e non fermarsi a commemorare cinque secoli di storia ebraica veneziana, insomma, un’occasione per ripensare e riprogettare il futuro di una comunità che come molte è di fronte a un avvenire incerto.
In “Giuda” di Amos Oz, a un certo punto Gershom Wald loda Ben Gurion dicendo: «Pochi capiscono come lui che il versetto “ecco un popolo che abita a parte e tra le genti non si conta” (Numeri 23, 9) è una maledizione e non una benedizione». E se l’ebraismo italiano tornasse a essere un centro com’era un tempo dove ebrei e non, da ogni angolo del mondo, potessero incontrarsi e scambiarsi idee? Ci si può almeno provare. Facendo così nostra la lezione che questo piccolo luogo del tempo e dello spazio ha dato e ancora può darci, e può dare all’umanità. I “loro” ghetti, i “nostri” ghetti, il “dentro” e il “fuori”.
Stefano Jesurum, giornalista
(6 novembre 2014)