Memoria – A Trieste il laboratorio Rendere giustizia al passato
Ristabilire la Memoria significa lavorare per un futuro migliore, ma anche rendere giustizia. Nell’estrema ricchezza di esperienze e testimonianze che stanno emergendo nel convegno interdisciplinare Il valore del ricordo. La perdita dei beni e la Memoria, che giunge oggi alla sua giornata conclusiva, si è discusso di cultura della Memoria anche nei suoi fondamentali risvolti economici e sociologici.
E’ toccato al direttore scientifico del Centro di documentazione ebraica contemporanea Michele Sarfatti ,mettere in luce quanto il lavoro riparatorio del legislatore, anche quando animato dalle migliori intenzioni, per raggiungere un risultato deve essere necessariamente supportato da una solida base di conoscenza storica e sociale. Attraverso l’esempio delle norme, rimaste in larga misura lettera morta, che attribuiscono all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane i beni degli ebrei morti senza eredi nelle persecuzioni e nello sterminio, lo storico ha posto in evidenza il problema di dare effettiva applicazione di processi delicatissimi che non possono essere esclusivamente affidati alla gestione delle macchina dell’amministrazione statale.
La sua relazione (I beni sottratti agli ebrei in Italia nel 1938-1945 e la Commissione Anselmi del 1998-2001) ha affrontato temi che non sono solo di particolare interesse per gli ebrei italiani, ma dell’intera società italiana là dove si intende generare una nuova consapevolezza di quello che è stato e di trasmettere attraverso le generazioni quel patrimonio di conoscenze che deve essere posto a garanzia della democrazia e della società civile.
Nel corso della giornata, fra i tanti interventi di questo importante spazio di confronto sui temi della Memoria, fortemente voluto dallo storico Giacomo Todeschini, dell’Università di Trieste e coordinato nella sua seconda giornata da Alessandro Treves, della Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, Roberto Spazzali dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia e Gloria Nemec, dell’Istituto regionale per la cultura isriana, lo spettro dei temi trattati si è ulteriormente allargato rispetto ai vasti orizzonti già delineati nella precedente giornata dei lavori.
Con la relazione Il doppio fronte degli esuli Giuseppe De Vergottini, dell’Università di Bologna, si è discusso della situazione degli esuli giuliani che si sono sentiti doppiamente defraudati dagli esiti del conflitto mondiale degli anni quaranta del secolo trascorso. Privati dei beni dalla Jugoslavia socialista uscita vincitrice dal conflitto. Privati di un equo indennizzo da parte della Repubblica democratica italiana succeduta allo stato autoritario protagonista della catastrofe bellica che si è risolta nella perdita delle province orientali e nell’esodo. Si può quindi dire che si sia prodotto un duplice fronte su cui le associazioni degli esuli hanno combattuto nel corso degli anni. Polemiche e amarezze verso gli occupanti jugoslavi e vivo rancore verso il proprio Stato che non avrebbe tutelato gli interessi delle popolazioni esodate intervenendo con una politica degli indennizzi considerata inadeguata e umiliante, in quanto non ha riconosciuto in modo accettabile il sacrificio di chi aveva sopportato non solo la perdita economica dei propri averi ma anche in molti casi lutti e tragedie famigliari.
Stefano Pontiggia, dell’Università di Ferrara, ha discusso di Beni che si perdono e che si conservano: case e masserizie nella memoria dell’esodo istriano a Trieste.
L’intento era di riflettere sul rapporto intercorrente tra memoria e perdita dei beni materiali a partire dai dati di una ricerca antropologica sull’esodo istriano condotta a Trieste alcuni anni fa. Il cosiddetto «esodo istriano» è uno spostamento forzato di popolazione che interessò circa 250.000 persone che, in un periodo generalmente compreso tra il 1943 e i tardi anni Cinquanta del Novecento, abbandonarono un’Istria che lentamente passava da un ventennale controllo italiano a un’amministrazione militare e civile jugoslava. I beni materiali sono un elemento centrale in questa esperienza e nel suo ricordo. Essi testimoniano dell’abbandono della propria casa e della propria vita quotidiana e dell’inserimento nel complesso e contraddittorio meccanismo dell’accoglienza, vero e proprio rito di passaggio verso un’integrazione in nuovi contesti di vita.
Giovanni Leghissa, dell’Università di Torino, ha discusso di Artefatti e antropogenesi. La memoria degli oggetti in una prospettiva antropologica
A partire dai dibattiti contemporanei che si collocano all’incrocio tra scienze cognitive, archeologia e biologia dell’evoluzione, è necessario esaminare in che senso la costruzione delle identità collettive e individuali abbiano luogo – e acquistino significato – a partire dal rapporto che gli umani instaurano con la dimensione oggettuale, intesa come ciò che comprende sia gli oggetti naturali sia gli artefatti.
Achille Puggioni, della Banca d’Italia, ha discusso della Misurazione della povertà: il contributo triestino di Pierpaolo Luzzatto Fegiz. La sua relazione ha messo in luce il ruolo dell’ebreo italiano che è considerato il patriarca degli studi statistici contemporanei e il suo coraggio nel creare gli strumenti di misurazione della povertà italiana già negli anni della dittatura fascista.
Silvia Amati, della Società Psicoanalitica Italiana, ha affrontato il tema della Funzione delle cose nella vita psichica. L’inquadramento esterno della vita di ognuno e di tutti ossia il mondo delle cose e il deposito degli aspetti più ambigui, imprecisi e indefiniti della mente. La loro ovvia esistenza ritorna al soggetto sentimenti di base di appartenenza e sicurezza
Il programma prosegue con autorevoli ospiti giunti per riferire de Memoria e l’arte rubate. Sulla restituzione del patrimonio culturale (Konstantin Akinsha,
Galerie Belvedere, Vienna, Austria) che ha spiegato come la restituzione del patrimonio culturale confiscato alle vittime dell’Olocausto abbia catturato l’attenzione pubblica da entrambe le sponde dell’Atlantico nella seconda metà degli anni ’90. In un certo senso, la fine della Guerra Fredda e la caduta dell’Unione sovietica hanno contribuito a scatenare tale interesse e per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli archivi, rimasti nascosti dalla cortina di ferro, sono divenuti accessibili ai ricercatori. Questi hanno potuto far luce sia sulla requisizione della cultura da parte dei nazisti, sia sul destino di moltissime opere d’arte scomparse.
La Conferenza di Washington (1998) e l’istituzione di commissioni governative dedicate alle questioni inerenti la restituzione dei beni, inclusi quelli culturali, in paesi come gli Stati Uniti, la Francia, l’Olanda e l’Argentina, hanno portato a una crescente consapevolezza dell’opinione pubblica in materia, contribuendo a individuare gli errori commessi nel dopoguerra in tema di restituzioni, e a stabilire nuovi standard nella documentazione museale e nel commercio dell’arte. La questione della provenienza, largamente trascurata per mezzo secolo sia dai musei che dalle case d’asta, è divenuta una nuova branca di studi di primaria importanza per gli operatori del mercato dell’arte responsabili.
Tuttavia, nonostante numerosi casi eclatanti, sfociati nella restituzione ai legittimi proprietari di importanti capolavori confiscati dai nazisti, tale pratica, che divenne un vero e proprio business con svariati esperti d’arte e influenti avvocati all’opera, dette vita a molti dilemmi morali, spesso provocando aspre critiche pubbliche. Fra le motivazioni frequentemente addotte dagli antagonisti della restituzione, vi erano i dubbi sul diritto da parte dei discendenti delle vittime dell’Olocausto di deprivare le sale dei musei di capolavori che, a restituzione avvenuta, erano immessi sul mercato dell’arte, gli ingenti onorari degli avvocati, nonché il contrasto fra il bene comune e il profitto privato.
Quindi, che cosa s’intende oggigiorno per restituzione del patrimonio culturale? Una dimostrazione di avidità o un tentativo di ripagare l’orribile ingiustizia storica? È una questione di memoria o di profitto? Le vittime dell’Olocausto e i loro discendenti hanno il diritto di volere la restituzione non solo di capolavori inestimabili, ma di oggetti dal valore sentimentale più che economico?
Infine Konstantin Anokhin, neurobiologo all’Istituto Kurchatov, Mosca, Russia ha messo al centro della propria relazione il tema Custodi della memoria: come il nostro cervello biologico plasma il nostro passato culturale
Lo studioso ha affrontato il rapporto fra storia e memoria tanto da confrontarsi con storici russi su tale tematica. Il suo interesse verte particolarmente sulla questione, poco indagata, di come le molteplici forme della memoria neurobiologica vanno a plasmare quella collettiva e storica, e di come i meccanismi neurobiologici di consolidamento della memoria, le dinamiche e i mutamenti dei sistemi, il nuovo consolidamento e l’estinzione inibiscono la memoria collettiva.
lp
(nell’immagine il tavolo dei relatori durante l’intervento dello Michele Sarfatti)