risposte…
Gli attentati delle ultime settimane, compiuti a Gerusalemme, sono una costante fonte di lacrime e dolore perché ogni ora che passa consegna alla morte uno dei feriti gravi. Posso permettermi il terribile lusso giornalistico di non contare i morti perché non offro la precisione delle notizie, quanto piuttosto il dramma di una riflessione tra il numero ed il dolore di tutte le vittime. Tre di queste erano una bimba di tre mesi, Chaia Zissel Baruch zl, una ventiduenne, Karen Yemima Musqara zl, ebrea discendente di anusim, ebrei divenuti cristiani con le persecuzioni dell’Inquisizione Spagnola iniziate cinque secoli fa ed un poliziotto druso, Jedan Assad zl di trentotto anni. Queste tre vittime sono, loro malgrado, ognuno simbolo del male che ci sta di fronte. Un male che considera l’altro un nemico da uccidere sempre e comunque, fin dalla sua nascita, senza distinzioni politiche o di indirizzo o nazione di residenza: un bimbo ebreo deve morire, anche a soli tre mesi, ovunque egli viva, ovunque gli sia toccato nascere, dalle “colonie” del Gush Etzion fino ad un quartiere di Londra o Roma. Chi riprende i fili di un ebraismo apparentemente messo a tacere da secoli di lontananza da una reale ebraicità e torna, convertendosi, al proprio popolo deve morire anche egli. Deve morire perché ha scelto di far coincidere il proprio destino con quello del popolo ebraico e per il mondo che ci sta di fronte il destino di un ebreo deve essere la morte. La terza vittima è un druso. Un poliziotto israeliano che apparteneva ad una delle tante minoranze che vivono serene in questo imperfetto ma democratico paese: i drusi. La colpa e la condanna del poliziotto druso passa per il suo essere israeliano e fedele servitore di questo paese, passa per il suo essere dimostrazione vivente che il destino del popolo ebraico, in quanto espressione nazionale, accoglie ed ha accolto ogni diversità, religiosa, culturale, identitaria che sia. Un druso del genere deve morire.
Leggo ogni giorno una Mishnà che cita un versetto del profeta Malachi, 3, 4: “… e tutti i tuoi figli sono allievi del Signore e molteplice è la pace dei tuoi figli…” Il Rabbino Kuk così commenta questo versetto: “Coloro che pensano che la pace mondiale verrà costruita solo da uomini che hanno idee e caratteristiche identiche sono in errore. […] Le cose in realtà non stanno così, perché la vera pace non potrà affermarsi nel mondo se non si accetta come valore la ‘molteplicità della pace’”.
La “molteplicità della pace” consiste nel fatto che tutti i metodi contengono una parte della luce della verità e attraverso essi si manifesterà la verità e la giustizia.” La piccola vita di Chaia, la vita ebraica scelta consapevolmente da Karen Yemima, la fedeltà alla propria cittadinanza israeliana del druso Jedan sono urla di molteplice pace contro il monocolore della violenza e dell’ideologia di chi vuole un mondo con una sola fede, una sola idea, un solo pensiero: il proprio. Continuare a limitare il conflitto in una sola zona del mondo, in una sola strada, in un solo fronte ha un grande effetto anestetico ma non racconta la verità e non offre nessuna giustizia alle vittime cristiane di 24 e 26 anni, Shama e Shahazad, bruciate vive in una città del Punjab con l’accusa di blasfemia contro il Corano. Anesteticamente possiamo decidere che il problema sia ebraico palestinese o ebraico islamico per alcuni aspetti, ma quando l’effetto dell’anestetico sarà finito dovremmo comunque dare una risposta alle morti di Chaia, Karen, Jedan di Gerusalemme e di Shama e Shahazad del Punjab e la risposta passa necessariamente tra il molteplice ed il buio di una sola idea capace di accendere fornaci e bruciare vivi altri essere umani o di investirli, senza distinzione alcuna, mentre aspettano l’autobus.
Pierpaolo Pinhans Punturello, rabbino
(7 novembre 2014)