Pensare il radicalismo islamico/8
Le correnti islamiste, presenti un po’ ovunque sul pianeta, e non solo in Medio Oriente, oscillano all’interno di un campo di idee, atteggiamenti e comportamenti delimitato, da un lato, dalla rivendicata fedeltà letterale alla tradizione, sia pure riletta secondo gli occhiali del presente (una tradizione non è mai tale se non si ibrida, piaccia o meno tale constatazione) e, dall’altro, dal rimando alla strategia politica del ribaltamento degli ordinamenti costituiti. Con l’affermarsi, a partire dagli anni Settanta, dei movimenti di mobilitazione religiosa, non solo in campo musulmano, si aggiunge ai due fattori precedenti un terzo elemento, quello per cui una tipologia di militanza che per un lungo periodo sembrava essere una mera specificità della religiosità islamica si diffonde, oggi, anche in altri ambiti. Il radicalismo trova infatti addentellati in luoghi che, per abitudine e diffusione, fino a qualche decennio fa, non gli erano propri. Il caso più lampante, al riguardo, è la capacità di fare proselitismo in Occidente, non solo tra i figli e i nipoti degli immigrati, quindi le cosiddette seconde e terze generazioni, ma anche in contesti che in origine avevano poco o nulla a che spartire con l’Islam. Il caso delle conversioni di cristiani al jihadismo – e non alla religione musulmana – sono un tragico riscontro in tale senso. Nel suo denotarsi come una reazione identitaria allo scontornamento, al divellamento dei confini dati, che la globalizzazione ha introdotto con decisione, il radicalismo musulmano si presenta sotto le vesti seducenti di una ricomposizione dello specchio infranto, di una ricostruzione di un ordine basato sulla sequenzialità, sulla prevedibilità, su una gerarchia di significati condivisibile. Non va confuso con i movimenti millenaristici, e neanche con quelli che predicano l’Avvento. Poiché il suo messaggio sta già in se stesso, ossia nell’idea che interiorizzando un’ortoprassi militante, agendo come prescritto, si sia giunti sulla soglia della giustizia ultraterrena. La pervasività del richiamo militante sta, infatti, nel rimandare continuamente alla condizione di assenza di giustizia che connoterebbe il mondo contemporaneo, e con esso la modernità. E nella necessità, inderogabile, non più rinviabile, di provvedere a ripristinarla. Per meglio dire, a generarla una volta per sempre. Ancora una volta, va sottolineato come la reviviscenza dell’islamismo sia consustanziale al declino della partecipazione politica di matrice laica. Le due cose interagiscono tra di loro, si nutrono vicendevolmente, sono compartecipi del medesimo processo storico, politico e culturale, benché si pongano per più aspetti agli antipodi l’una dell’altra. Se, ancora una volta, si deve trovare una radice, risalendo a ritroso nel tempo, l’humus ideologico è quello offerto dalla Salafiyya, altrimenti detto salafismo, una corrente di pensiero di estrazione sunnita che rinvia agli antenati musulmani, per meglio dire Salafal-salihin, i “pii antenati”, espressione che raccoglie le prime tre generazioni succedutesi alla predicazione militante del Profeta. Con esse si intendono i Sahabi, i “compagni” di Maometto, suoi contemporanei; i Tabiʿun, i “seguaci”, succedutigli dopo la morte; infine, i Tabiʿ al-Tabiʿiyyin, “quanti sono succeduti ai seguaci”. Per la salafia, questa vicinanza cronologico-temporale alla fonte profetica è la garanzia di una esemplarità nella condotta religiosa. L’impianto ideologico è stato costruito, nel corso del tempo, da alcuni studiosi della Sunna (termine che indica “consuetudine”, “abitudine”, così come per estensione anche “costume di vita”, non meno che “codice di comportamento”; è un corpus che raccoglie gli atti e i detti di Maometto, trasmessi nel corso del tempo con gli hadith, dei brevi resoconti, molto numerosi, del suo operato; l’insieme degli hadith, con il Corano, sono la fonte della legge islamica e concorrono a dare corpo e sostanza alla sharia). Tra gli eminenti pensatori vanno annoverate le figure di Ahmad ibn Hanbal (780-855); di Ibn Taymiyya (1263-1328), che proclamò il dovere del jihad offensivo, armato, contro i mongoli; di Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), quest’ultimo padre del wahhabismo, oggi diffuso soprattutto nella Penisola arabica. A stretto senso, il salafismo indica tuttavia anche e soprattutto un fenomeno di revivalismo manifestatosi nella seconda metà dell’Ottocento, a partire dall’Egitto, ancora una volta come reazione alla presenza “straniera”, con l’obiettivo – in sé per nulla conservatore – di identificare le radici islamiche dei processi di modernizzazione. Il trascorrere del tempo ha introdotto nuove accezioni e deviato il senso originario che riposava nella parola. Se in un primo momento quanti si riconoscevano in questa corrente di pensiero erano disponibili al confronto con le sollecitazioni provenienti dall’Occidente, ritenendolo semmai un atto ineludibile, con il Ventesimo secolo le correnti della salafia sempre di più si sono identificate con i rigidi dettami del wahhabismo. Prioritario è allora divenuto il discorso sulla “purezza delle fonti”, a detta degli apologeti inquinate dall’ibridazione con la modernità coloniale e imperialista e, nel medesimo tempo, la denuncia ossessiva di una totale sudditanza morale, politica e civile, nei confronti del dominatore euro-americano. In realtà la Salafiyya rimane, nel suo nocciolo duro, un criterio di lettura del Corano, e di vita nell’Islam, incline a enfatizzarne l’approccio non intellettualistico, a-teologico, senza ricorso all’esegesi. Se in un primo momento ciò si esercitava contro l’allegorismo mistico dei gruppi sufi, così come contro il letterarismo senza vita di certi ripetitori mnemonici, il fuoco polemico si è poi spostato verso altri obiettivi. Recuperando la natura increata del Sacro Testo, donato da Allah agli uomini per il tramite del Profeta, il salafismo, come si argomentava, si è incontrato e mischiato alla rigidità del wahhabismo, dando alla Sunna un valore dichiaratamente anti-modernista. Il movimento della Salafiyya è quindi venuto predicando, in anni a noi più prossimi, la necessità di ricreare ex novo le condizioni in cui visse Maometto nel VII secolo dell’era volgare. Del suo operato, oltre ovviamente alla natura profetica, alla funzione di emissario umano della volontà divina, si richiama anche la dimensione comunitaria, militante e combattente, che condivise con i suoi seguaci e sostenitori. Con questo imprinting il salafismo ha però ridato corda all’attività di «interpretazione», l’ijtihad, dinanzi agli innumerevoli quesiti imposti dal confronto con la globalizzazione. Ancora una volta il radicalismo islamico è costretto ad una sorta di moto pendolare, tra la rigidità di un dottrinarismo apparentemente immodificabile ed impermeabile al confronto con lo stesso principio di realtà e una flessibilità dettata dalle occorrenze tipiche dei movimenti politici, dove ad ogni sollecitazione deve seguire una reazione di intensità uguale ma di segno contrario. Il robusto intreccio con il radicalismo politico a base religiosa è forse però ascrivibile già ad una ottantina di anni fa quando, in Tunisia, andarono costituendosi scuole, diffondendosi pubblicazione e articolandosi reti capillari di predicatori che rinviavano al wahhabismo. La centralità della Tunisia sta soprattutto nel fatto che quella società si era invece, nel suo insieme, già da molto tempo aperta alle diverse correnti islamiche, essendo peraltro anche un luogo di incontro tra la cultura musulmana e quella europea. La lotta contro il sufismo mistico e il marabuttismo (quest’ultima è la pratica del culto dei santi locali, fatti oggetto di venerazione popolare, e come tale intesa dai suoi detrattori come un’inaudita infrazione del principio di «unicità», al-tawhid, di Allah), in quella come in altre parti del Maghreb arabo, divenne una battaglia di principio. Il salafismo tunisino, negli anni Trenta, impresse alla discussione pubblica una fortissima curvatura moralistica, imputando al rapporto con la modernità tutte le disgrazie correnti. I tempi vigenti erano presentati come intossicati dai «vizi» – l’alcolismo, la sessuomania, lo scetticismo culturale, il razionalismo intellettuale, la perdita dei legami ancestrali, la prostituzione, le rivendicazioni di autonomia da parte delle donne e così via – leggendo nel presente, e nelle sue trasformazioni, il segno della disgregazione delle autorità tradizionali, a partire dalla famiglia, in quanto precipitato della caduta collettiva negli abissi più cupi e profondi. Nello stesso arco di tempo, non a caso, in Egitto andava diffondendosi la Fratellanza musulmana, meglio conosciuta poi come espressione di una neo-salafiyya. La differenza, rispetto all’esperienza tunisina, quest’ultima maggiormente legata ad una islamizzazione “dall’alto”, ossia rivolta ad influenzare le élite, è che nel caso egiziano il pubblico al quale rivolgersi è stato immediatamente identificato con la grande maggioranza della popolazione, che stava vivendo sulla propria pelle il cambiamento in atto in quei decenni. Per i Fratelli musulmani si trattava di adoperarsi nella da’wa, l’“appello”, ovvero il proselitismo, inteso soprattutto come recupero delle fede in termini ortodossi, in chiave anti-intellettualistica, in un’ottica fortemente conservatrice. Nel suo complesso, quindi, il salafismo a tutt’oggi, tanto più se inteso come corpus ideologico e dottrinario radicale, non è un movimento unitario bensì un habitat socio-culturale. La Salafiyya si è diffusa, negli ultimi decenni, in tutto il mondo musulmano attraverso le Pondoks, scuole coraniche indonesiane, e poi tra la gioventù immigrata presente nelle grandi periferie europee. Di fatto è un insieme di cupe correnti neofondamentaliste che riverniciano di nobiltà intellettualistica il passaggio verso il jihadismo, la violenza pura e dura. Qualcosa, quindi, di molto diverso dall’originario tentativo di cogliere il senso dell’“innovazione”, bida’a, che ispirava un tempo i pensatori. Sommariamente, il salafismo dei giorni nostri si divide in tre grandi raggruppamenti. Il primo di essi, quello “litterarista”, ovvero legato alla lettura rigidamente ortodossa e a-teologica del Corano, rimanda al wahhabismo saudita e agli insediamenti presenti nello Yemen e in Giordania. La sua prima preoccupazione è di vivere in stretta simbiosi con le prescrizioni coraniche, aspirando, quando già ciò non sia successo, alla migrazione – l’egira – verso quei paesi considerati come più e meglio conformi alla propria idea di religiosità. Si tratta di una corrente quietista, che vuole incidere sui costumi sociali ma che non necessariamente ricorre alla politica. Il secondo nucleo è quello, invece, più politico, che ha trovato spazio grazie anche alle due guerre del Golfo, tra il 1990 e il 2003. La presenza americana sul suolo islamico ha fatto da detonatore ad un movimento di “risveglio”, volto a islamizzare le proteste che da ciò sono seguite un po’ in tutte quelle parti del mondo in cui cospicue comunità musulmane sono stabilmente insediate. La terza tendenza è quella più strettamente jihadista, involucro intellettuale del terrorismo e degli attentati suicidi. Si rifà all’insegnamento dell’egiziano Sayyd Qutb e del giordano Abu Muhammad al-Maqdissi. Secondo quest’ultima corrente, ciò che conta è la guerra contro il nemico, ovvero l’obbligo al jihad offensivo. Il fondamento storico di questi gruppi è l’esperienza della guerra in Afghanistan contro la presenza sovietica prima e, nel decennio successivo, in Bosnia e in Cecenia. Con una particolare attenzione, e militanza, nell’Algeria della guerra civile dei primi anni Novanta. Il conflitto afghano, tra il 1979 e il 1989, ha costituito un’autentica fucina nella formazione di gruppi e criteri di combattimento. È questa la vera matrice del terrorismo, da quello del Jemaah Islamiyah (la “Congregazione islamica2) indonesiano al Gicm, il Gruppo islamico combattente marocchino. In tali casi l’elemento aggregante è l’idea di un jihad planetario, di cui al-Qaeda, Abu Mussab e al-Zarkawi sono state le diverse vestali. Le ricadute si sono misurate nel tempo in svariati scenari di guerra civile, dall’Africa all’Asia: basti pensare alla già citata Cecenia, all’Iraq e alla Siria, ai Territori dell’autonomia palestinese ma anche agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, seguiti a ruota, nella strategia terroristica globale, dai fatti di Bali del 2002, di Madrid nel 2004 e di Londra nell’anno successivo.
(8/segue)
Claudio Vercelli
(9 novembre 2014)