Ritorno in Algeria

Francesco Moisés BassanoAlcune notizie dello scorsa estate riportavano l’intenzione da parte del neo-ministro algerino Mohamed Aissa di riaprire le sinagoghe chiuse nel paese a partire dagli anni novanta, periodo in cui l’Algeria fu travolta dalla violenta guerra civile che coinvolse lo stato guidato dal FLN e i gruppi islamisti, come il FIS e in seguito il GIA. Questa dichiarazione, naturalmente accolta con le proteste degli islamisti più radicali, oltre forse a significare una presa di distanza dal diffuso antisemitismo/antisionismo dei paesi arabi – nonostante l’Algeria non accetti neppure i possessori di passaporto israeliano – parrebbe quasi nel clima attuale, una battuta di spirito. Non è del tutto noto, se in Algeria, sia rimasto ancora qualche ebreo praticante, visto che la maggioranza di essi, circa 150.000 prima dell’indipendenza, ha seguito la via del “rimpatrio” in Francia nel 1962 assieme ai pieds-noirs, o ha preferito l’Aliyah in Israele, e gli ultimi rimasti partirono tra il 1971 e i fatidici primi anni ’90. Quasi sconosciuto è ancora, il numero effettivo di sinagoghe che si potrebbero ancora considerare tali, visto che buona parte di esse sono state trasformate in moschee (come la “Grande” di Oran, o quella della Casbah di Algeri che è stata affiancata da un azzurro minareto), o sono in avanzato stato di abbandono e degrado (come quelle di Bab el-Oued, di Constantine o di Gherdaia), o riconvertite in scuole, uffici o addirittura in “maroquinerie” (il caso per esempio di Medea). Sarebbe poi da domandarsi, chi in un paese dilaniato dal terrorismo islamista e dalla criminalità come l’Algeria, riuscirebbe a coltivare serenamente il proprio ebraismo, quando ciò è diventato già difficoltoso in alcuni paesi europei. Ma senza troppo scetticismo, le parole di Aissa, potrebbero sì testimoniare uno spiraglio di luce, sebbene la strada per riconoscere o rivalorizzare l’importanza della passata presenza ebraica in Maghreb sia ancora tutta in salita.
Lo storico Georges Bensoussan, all’ultimo Jewish in the City, affrontando il tema dell’esodo ebraico dai paesi arabi, oltre ad aver cercato di confutare il mito del rapporto idilliaco tra ebrei ed arabi nel Maghreb – secondo Bensoussan le ostilità sarebbero già cominciate in pieno ottocento con l’emancipazione e l’occidentalizzazione di alcune frange delle comunità nordafricane, quando il sionismo era ancora prematuro – ha rimarcato con rincrescimento come in Europa sia dai più misconosciuta e sottovalutata la storia degli ebrei “arabi” e la massiccia espulsione che ebbe luogo “tutt’oggi difficile da costruire ed oggetto di negazione”, nonostante i numerosi discendenti che si possono ritrovare tutt’oggi in Italia, in Francia e in Israele. Una storia che andrebbe sicuramente ripercorsa anche sotto una prospettiva culturale ed etnografica. Un articolo del Jerusalem Post del 2001, riportava come in Tunisia, con i finanziamenti dell’ex governo Ben Alì, i cittadini di El Kef, remota cittadina nell’Atlante, avessero ristrutturato la Ghriba cittadina, e difatti la storia degli ebrei berberi locali, i “bahutsim” è orgogliosamente ricordata sul sito del comune e sui portali turistici della cittadina. Forse, se l’analisi di Henryk Broder sulla futura Europa ebraica costituita esclusivamente da curati cimiteri, case di cura e deserte sinagoghe ed istituzioni, potrebbe considerarsi in questo caso troppo drastica (almeno lo spero) e dannosa, per il Nordafrica e il Medio Oriente sarebbe ciò che di meglio ci si potrebbe augurare. Almeno la speranza, che la memoria dei maghrebim e dei mizrahim, non resti soltanto la nostalgia di un’infanzia e di un paese perduto come la raccontano scrittori come André Aciman, ma qualcosa che divenga finalmente iscritto ed indelebile nella storia e nei luoghi.

Francesco Moises Bassano

(14 novembre 2014)