BookCity – Cosa chiediamo a Primo Levi?
Il racconto di Primo Levi non è solo quello della testimonianza ma quello articolato e straordinario di un uomo. Questa la definizione dell’opera dello scrittore italiano data stamane da Fabio Levi, direttore del Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino, alla conferenza dal titolo “Cosa chiediamo a Primo Levi?” organizzata nell’ambito del festival Milanese Bookcity dal CISPL e dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, e svoltasi nella sala Buzzati della Fondazione Corriere della Sera. A intervenire oltre a Levi, Mario Barenghi, insegnante di letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano Bicocca e autore di “Perché crediamo a Primo Levi?” (Einaudi), e Stefano Bartezzaghi, giornalista e scrittore, autore di “Una telefonata con Primo Levi” (Einaudi), introdotti e moderati da Michele Sarfatti, direttore del Cdec. “Primo Levi in tutta la sua opera ci mostra che la lingua e qualcosa di tutt’altro che morto, la lingua è una cosa viva, e per questo Primo Levi è da considerare un modello di stile”, così Barenghi ha risposto alla domanda alla base dell’incontro. Concorda Stefano Bartezzaghi, che ha sottolineato come Levi sia un maestro dello stile “proprio nel senso etimologico di ‘stiletto’, l’oggetto con cui si compie una penetrazione nella sostanza”. In risposta alla grande attenzione data dagli oratori alla comunicazione e all’uso della parola da parte di Primo Levi, Sarfatti ha li ha quindi stimolati a riflettere sui suoi silenzi, su quanto deliberatamente da lui viene taciuto. “È stato già rilevato come Primo Levi sia un modello di stile e di riflessione filosofica, ma è anche importante sottolineare come egli dicesse esplicitamente di non voler affatto essere un modello, ricercando invece costantemente il dialogo con i suoi interlocutori, ma anche con i suoi lettori, ponendo costantemente domande senza sempre dare la risposta”, ha evidenziato Fabio Levi. “Primo Levi è infatti un modello anche per questo suo non aver mai voluto mettersi in cattedra”, ha continuato Bartezzaghi. “Noi pensiamo il silenzio come mancanza della parola, ma in realtà esso è anche dentro la parola, perché è la condizione per l’ascolto: il dialogo è possibile solo se uno è capace di tacere”. Ma il silenzio di Levi non è solo interrogazione, ha concluso Barenghi, bensì anche reticenza: “Per dire veramente qualcosa bisogna tacere altro, per ricordare veramente qualcosa bisogna accantonare altro: Primo Levi troviamo in molti casi accenni di emozioni o storie che non nasconde, ma preferisce non sviluppare, e in questa scelta vi è una profondissima onestà data da una conoscenza molto profonda dell’effetto delle parole”.
Francesca Matalon
(16 novembre 2014)