Pensare il radicalismo islamico/9
Non si comprende il radicalismo politico-religioso islamista se non si sposta l’attenzione su quella che rimane, a tutt’oggi, la sua organizzazione più longeva e diffusa, i Fratelli musulmani, ovvero Jama’at al-Ihwan al-muslimin («Associazione dei fratelli musulmani»). Presenti in Egitto, oggi soprattutto per il tramite del loro braccio politico, costituito dal Partito libertà e giustizia, che nelle elezioni del 2012 è riuscito a fare eleggere il suo più importante esponente, Mohamed Morsi, a Presidente della Repubblica, vantano un solido insediamento anche nei Territori palestinesi, ed in particolare a Gaza, con Hamas. La Fratellanza è a tutt’oggi ritenuta un’organizzazione terroristica da parte dei governi della Russia, del Bahrain, dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, dalla Siria, mentre continua ad essere sostenuta finanziariamente e politicamente dal Qatar. Nonostante la vicende che in questi ultimi due anni hanno portato alla defenestrazione di Morsi, bruscamente sostituito al potere con il colpo di stato guidato dal generale Abd al-Fattah al-Sisi, e alla seguente repressione dell’organizzazione, nel corso della quale si sono susseguiti arresti, perlopiù arbitrari, torture e anche assassinii, non si può dire che il suo ciclo vitale si sia esaurito. Già la vittoria ottenuta nelle elezioni legislative egiziane del 2005, quando il movimento si assicurò 88 dei 444 seggi in palio, risultava tanto più rilevante dal momento che interveniva in un contesto, quello per l’appunto cairota, nel quale formalmente la Fratellanza era e rimaneva fuorilegge. In altre parole, tutti i candidati avevano corso in qualità di indipendenti. Era un segreto di Pulcinella il fatto che costituissero espressione di un’organizzazione non legale. Ma ciò non solo non aveva impedito che si fossero candidati, semmai favorendone il voto popolare. Il passaggio elettorale sanciva comunque un passo importante nel percorso di neo-islamizzazione che in questi ultimi decenni ha attraversato le società maghrebine e mediorientali. Gli eventi politici successivi, nella loro tumultuosità, si sono quindi incaricati di marcare ancora di più questo processo. L’esito impolitico delle «primavere arabe», dettato, nel medesimo tempo, dall’incapacità delle élite al potere di dare una qualche risposta alle domande economiche e di partecipazione provenienti dalla società civile e dall’impotenza dei protagonisti medesimi, ha rafforzato le spinte fondamentaliste. L’intervento, in Egitto, del generale al-Sisi, ha temporaneamente cristallizzato i rapporti di forza ma non potrà, in prospettiva incidere più di tanto negli equilibri a venire, dinanzi ad una società bloccata, ad una popolazione in maggioranza sulla soglia della povertà, quando non del tutto in miseria, una pubblica amministrazione la cui ossatura rimane quella prescrittagli e garantitagli dall’esercito, l’inconsistenza di un’economia che gira nel vuoto. Il vero elemento di forza dei Fratelli musulmani rimane peraltro la denuncia della corruzione delle istituzioni, della condizione di iniquità in cui versa l’intero mondo arabo, dell’irriformabilità dello Stato così come si presentano lapalissianamente agli occhi dei più. Un concentrato di consorterie, clientele e nepotismi che esclude, al Cairo come in tutti i grandi centri del Medio Oriente, buona parte della popolazione da qualsiasi forma di partecipazione attiva. Già alcuni anni dopo la loro fondazione, avvenuta nel 1928 ad Ismailia, la Fratellanza era riuscita ad aprire sezioni e rappresentanze in buona parte del mondo arabo sunnita, da Occidente ad Oriente, partendo dal Marocco per arrivare all’attuale Giordania. Il fondatore del movimento, Hasan al-Banna (1906-1949), un giovane insegnante, definiva così i suoi fini: «liberare la patria [watan] islamica da ogni potere straniero. È questo un diritto naturale di ogni uomo, e può negarlo solo il perverso, l’ingiusto e il sopraffattore». Inoltre, «istituire, nella patria liberata, uno Stato islamico libero che operi secondo le direttive dell’Islam e ne applichi l’ordinamento sociale». Per raggiungere tali obiettivi, era ritenuto imprescindibile «formare l’uomo musulmano» poiché «quando si sarà costituito il nucleo familiare islamico, verrà in esistenza anche la società musulmana che diffonderà al suo interno e attorno a sé l’appello al bene e alla lotta contro i vizi e le turpitudini; promuoverà la virtù, il lavoro e la produzione, la sicurezza, la generosità e l’altruismo». Solo una volta datasi una società musulmana, retta a conforme ai principi morali più profondi, potrà derivarne il vero Stato islamico, «che implicherà l’applicazione della Legge di Allah [Sharia]». In una concezione delle cose che si ispirava, nello stesso tempo, ad un approccio organicistico (dove le parti corrispondevano al tutto) e deterministico (ritenendo che l’evoluzione verso una soluzione islamica stesse nei fatti medesimi, nel loro susseguirsi dinamico, nel concatenarsi tra di loro), al-Banna celebrava la completezza del pensiero islamista, inteso come in grado di contemperare tutti i punti di vista, di riconoscere e mediare tra i diversi interessi, di coronare obiettivi diversi, superando e lasciandosi alle spalle lo scetticismo e il nichilismo che venivano attribuiti all’Occidente. Allo spirito di fazione, alle logiche di divisione sarebbe così subentrata l’azione di ricomposizione che, dalla comunità, si sarebbe traslata nella dimensione pubblica, in un percorso di re-islamizzazione dal basso verso l’alto. Peraltro, l’intera esperienza di al-Banna rinviava a rapporto che aveva intrattenuto con i lavoratori arabi della zona del Canale di Suez, dove si trovava ad operare, registrandone la condizione di sofferenza che i più vivevano quotidianamente. In tale modo, all’interno di una costruzione ideologica che coniugava appello agli ultimi con il rimando ad una severa precettistica, raccogliendo le spinte che provenivano, sia pure spesso in maniera molto disordinata, un po’ da tutte le realtà locali, i Fratelli musulmani si sono da subito candidati a costituire la matrice più autentica del neotradizionalismo islamista. Questo aspetto di natura tendenzialmente anti-istituzionale, perché giocato, nell’agone pubblico, contro i gruppi al potere, non impediva tuttavia ad una parte dei loro esponenti di ibridarsi con le élite di governo, in un irrisolto rapporto di scambio. Nella loro vicenda storica, infatti, la capacità di interagire con le dinamiche di governo, pur dichiarandosi in linea di principio contro un «potere» iniquo perché in mano a governanti empi ed apostati, rimane un tratto peculiare del modo di essere dei Fratelli musulmani. In opposizione quel tanto che occorre per presentarsi come alternativa globale ma, nel medesimo tempo, capaci di intessere rapporti profittevoli, quando se ne dava l’occasione, con chi stava assiso ai vertici dello Stato. Liquidare questa condotta come mero opportunismo costituisce una semplificazione inaccettabile nell’analisi del quadro politico mediorientale, riguardo al passato come nel presente. Piuttosto, va colto l’elemento strategico dell’interazione con ciò che si dice di volere abbattere. Fatto che ha sempre comportato la loro lunga estraneità dai luoghi di rappresentanza formale ed istituzionale ma non di certo dagli snodi decisionali, quando essi si sono messi in movimento. Durante gli anni del panarabismo, del socialismo di Nasser, del nazionalismo arabo, durati due decenni, dal secondo dopoguerra fino almeno al 1967, l’insieme delle organizzazioni islamiche, e tra esse la stessa Fratellanza, rimasero oscurate dal secolarismo trionfante. Così con il nasserismo come con il baathismo, varianti mediterranee e mediorientali di un sogno terzomondista che di lì a non molto sarebbe ripiegato su di sé, spegnendosi velocemente dopo la Guerra dei sei giorni, autentico tornante collettivo di una pluralità di trasformazioni. A conti fatti quell’anno rappresentò per il Medio Oriente ciò che sarebbe stato il 1989 per le relazioni tra Est ed Ovest del pianeta. Il rais cairota fu peraltro uno dei più accesi avversari del movimento, mandando a morte anche Sayyid Qutb (1906-1966), insieme ad al-Banna l’altro pilastro dell’organizzazione, benché su posizioni molto più radicali del secondo. Dopo la sonora sconfitta egiziana del 1967 e la conquista, da parte di Israele, di una gigantesca porzione di territori arabi, le sorti – infatti – volsero diversamente per i protagonisti in campo. La radicalizzazione dell’islamismo seguì quindi di pari passo la sua legittimazione tra la popolazione. Non si trattava più di dare respiro alla «nazione araba», sulla quale avevano investito tutte le loro carte le fallimentari élite modernizzanti, prendendo a modello i processi occidentali, bensì sull’«umma islamica», in una secca inversione di priorità. I Fratelli musulmani, in questa congerie di trasformazioni, hanno giocato abilmente le loro carte. Lo stesso nuovo presidente egiziano, Anwar al-Sadat, riformulando gli indirizzi politici cairoti, a quel punto avrebbe scelto una strada più calcolata, nel tentativo di isolare le organizzazioni studentesche della sinistra. Condotta, quest’ultima, che sarebbe divenuta una costante nei rapporti con i movimenti di re-islamizzazione, confidando che essi possano fungere da filtro, se non addirittura da barriera, contro le componenti militanti della società laicizzata, ora delusa dal fallimento dei poteri pubblici e sempre più proclive allo scontro di piazza. Il risultato sarà una spaccatura in seno agli stessi Fratelli musulmani, quando un segmento estremista parteciperà all’assassinio di Sadat, nel 1981. La qual cosa non generò tuttavia una crisi del regime cairota ma la scelta, effettuata dal successore, Hosni Mubarak, di attuare alcune caute aperture, tra le quali, nel 1984, la concessione all’organizzazione di concorrere alle elezioni, sia pure non con liste proprie ma in consorzio e alleanza con i partiti dell’opposizione. Più che altro un gioco delle parti, con l’obiettivo di garantire al potere centrale un’altrimenti incerta stabilità, cercando di governare dividendo gli avversari. Da quel momento i Fratelli musulmani si sarebbero quindi divisi in due, tra una componente maggiormente esacerbata e propensa al ricorso alla violenza, e una parte maggioritaria decisamente orientata alla promozione del proselitismo, la da’wa, ossia la «chiamata» all’Islam rivolta alla società civile. Non è un caso, quindi, se nel corso delle gigantesche proteste popolari del 2011, che porteranno alla rovinosa caduta di Mubarak, il corpo centrale della Fratellanza si troverà defilato, se non estraneo, dalle manifestazioni, non riuscendo a cavalcare il moto degli eventi. Ma il tempo sembra essere una variabile dipendente a favore del movimento, che conta sulla fidelizzazione di un grande numero di persone. Laddove esso si è sostituito ad uno Stato che non c’è e che, perdurando l’insieme delle cose, mai riuscirà ad esserci. Ciò che per i Fratelli musulmani conta, infatti, non è il conquistare le casematte di un potere che ha già dimostrato di non sapere come gestire, ma di procedere ad una islamizzazione sistematica della popolazione. In attesa che il sogno di un nuovo califfato possa tradursi in atti e fatti.
(9/segue)
Claudio Vercelli
(16 novembre 2014)