J-ciak – “Il laureato” è un outsider
Robert Redford era perfetto per quella parte. Alla fine però a interpretare Benjamin Braddock, indimenticabile protagonista de “Il laureato”, Mike Nichols volle l’allora quasi sconosciuto Dustin Hoffman. L’anti-Redford per eccellenza: piccolino, scuro, newyorkese. L’uomo meno wasp che si possa immaginare, soprattutto a vederlo immerso nella California waspissima tutta piscine e cocktail che incornicia il film. Il motivo della scelta? Perché “Braddock è un outsider e dunque è metaforicamente ebreo”, spiegò lo stesso regista, scomparso pochi giorni fa.
Fu così che Mike Nichols – nato Mikhail Igor Peschkowsky a Berlino e diventato Mike a New York, dov’era sbarcato bambino per sfuggire alla persecuzione nazista – a neanche trent’anni diede vita a uno dei cult del cinema americano. Insieme a un attore anch’egli ebreo e la meravigliosa colonna sonora di altri due artisti ebrei, Paul Simon e Art Garfunkel. Quasi che l’America di quegli anni, spazzata dal vento delle contestazioni e del rinnovamento, si potesse cogliere appieno solo con lo sguardo per forza eccentrico dell’outsider che nasce e cresce fra due culture.
Il Laureato, raccontò Nichols, poteva essere diretto in due modi opposti. Si poteva fare di Benjamin Braddock uno dei tanti giovani in cerca di sé dopo la laurea, che è poi la scelta di Charles Webb, autore del libro da cui il film è tratto. In alternativa, si poteva “esprimere la differenza tra la sua famiglia californiana e quella dei loro amici: in modo quasi inconscio scelsi questa strada”, spiegò il regista anni fa ad Abigail Pogrebin, autrice del volume Stars of David: Prominent Jews Talk about Being Jewish.
La scelta di Dustin Hoffman arrivò dopo un estenuante tour de force di audizioni (“a quel punto non avevamo visto soltanto ogni giovane attore disponibile, ma anche ogni giovane uomo delle pulizie”). Allora a Mike Nichols tornò in mente Hoffman, che aveva visto a teatro. E quando l’attore si presentò, i tasselli del mosaico quasi per miracolo andarono al loro posto in un film destinato a diventare uno dei caposaldi nella storia del cinema.
Nichols non perse mai quella capacità di trarre il meglio dagli attori – “Il laureato”, che gli fruttò l’Oscar e lanciò la carriera di Dustin Hoffman, fu il suo secondo film dopo “Chi ha paura di Virginia Woolf?” dove aveva diretto in maniera brillante due mostri sacri come Elizabeth Taylor e Richard Burton. E non perse mai nemmeno quell’inclinazione per gli outsider, tanto che molti anni dopo volle un altro Hoffman, Philip Seymour, prima per “La guerra di Charlie Wilson” e poi nella messa in scena a Broadway di “Morte di un commesso viaggiatore” che fruttò al regista un Tony Award.
La sua immensa curiosità per le persone (usava dire che “Non si finisce mai di capire la gente”) e quel suo sguardo gentile e ironico sul mondo hanno d’altronde radici lontane, in un passato accidentato e spesso doloroso. Mike era arrivato a New York nel 1938, a sette anni, dopo un lungo viaggio per mare insieme al fratellino di tre anni. Il padre, di origini russe, era negli Stati Uniti da alcuni mesi – grazie a un ricco parente che garantì per tutti loro – dove lavorava con successo come medico. La madre – figlia di Hedwig Lachmann, autore del libretto per la “Salome” di Richard Strauss e nipote dell’anarchico Gustav Landauer, assassinato da oppositori di destra – li raggiungerà nel 1940, fuggendo dalla Germania attraverso l’Italia.
Come ricorderà molti anni dopo in un’intervista a Life, il piccolo Mike allora è capace di dire in inglese soltanto “I do not speak English” e “Please don’t kiss me”. Di certo il fatto di avere perso tutti i capelli ad appena quattro anni dopo una vaccinazione contro la pertosse (sarà condannato a portare parrucche per tutta la vita) non lo aiuta a integrarsi. E la morte del padre, avvenuta nel ’42, non fa che peggiorare la situazione e aggravare la sua profonda solitudine.
Gli amici arrivano molto dopo, all’università di Chicago. È allora che Mike incontra Elaine May e scopre, per caso, la sua vena artistica. Insieme a Elaine, attrice comica e figlia di due attori del teatro yiddish, forma il duo “Nichols and May”. Diventeranno famosi per i loro sketch sull’incomunicabilità di coppia e sulle nevrosi americane, ma dopo un po’ lui capirà che la sua vera vocazione è la regia. Nel ’63 dirige a Broadway “A piedi nudi nel parco” di Neil Simon, poi arriva “Chi ha paura di Virginia Woolf” (viene scelto dalla stessa Elizabeth Taylor) e, nel ’67, l’immenso successo de “Il laureato.
Da allora, per cinquant’anni, i premi e i film si susseguono: “Comma 22”, “Conoscenza carnale”, “Silkwood”, “Affari di cuore”, “Una donna in carriera”., “Cartoline dall’inferno”, “Primary colors”, “The Bird Cage”, “Closer”, “La guerra di Charlie Wilson”. Tutti interpretati dai migliori attori di Broadway e Hollywood, tra cui Meryl Streep, Julia Roberts, Philip Seymour Hoffman, Tom Hanks, Kevin Spacey, Robert Redford, Jack Nicholson, Emma Thompson e Natalie Portman.
A renderli inconfondibili è lo sguardo assetato di vita del loro regista. “Credo – dirà in un’intervista del 1986 al Washington Post – che il mio soggetto sono le relazioni tra uomini e donne, centrate attorno a un letto”. E amori, corteggiamenti, lacrime e risate, sono sempre intrisi di ironia e umorismo, che definire ebraici pare scontato. Ma è lo stesso Nichols a spiegare che il motivo per cui tanti artisti comici sono ebrei è che “l’introspezione e l’humor ebraici sono una forma di sopravvivenza. Non solo in quanto gruppo, ma come individui. Se non sei bello, atletico o ricco, l’ultima speranza per aver successo con le ragazze è di essere divertente. Le ragazze amano i ragazzi che le fanno ridere”. Di certo, scambiare il biondo e regale Robert Redford con Dustin Hoffman è uno di quegli scherzi che lasciano il segno.
(nelle immagini, una scena de “Il laureato” e il regista Mike Nichols)
Daniela Gross
(28 novembre 2014)