La norma e l’identità

vercelliLa vicenda del disegno di legge presentato dal governo israeliano all’approvazione della Knesset in merito alla definizione di Israele come «Stato della nazione ebraica» ha provocato numerose reazioni tra gli osservatori e, soprattutto, nella pubblica opinione. Non Italia, a parte qualche prevedibile riflesso pavloviano e poche, savie e ragionevoli riflessioni, ma senz’altro su una parte della stampa internazionale e nel Paese. Era fatto prevedibile, così com’era altrettanto prevedibile che dall’ipotesi, avanzata e caldeggiata dal primo ministro Netanyahu, derivasse una secca distinzione all’interno del suo stesso esecutivo. È risaputo che al momento della votazione quindici ministri hanno assentito mentre altri sette hanno detto di no. Tra questi ultimi, anche un esponente del Likud. Il passaggio parlamentare si preannuncia quindi non meno gravido di discussioni, se non addirittura di polemiche. I punti maggiormente critici riguardano la rinnovata centralità dell’educazione ebraica (che è cosa diversa, o non immediatamente sovrapponibile ed omologabile, a quella israeliana), la cui primazia giocherebbe a detrimento di quelle d’altro timbro, a partire dalla stessa cultura arabo-israeliana, che nel corso del tempo è andata sviluppandosi e intersecandosi con il maistream nazionale; l’inequarabilità della lingua araba a quella ebraica nella definizione della nozione di lingua nazionale, ossia sovrana; la problematica assunzione del diritto ebraico all’interno di quello israeliano (ancora una volta, non parliamo della medesima cosa quando ci riferiamo all’uno e all’altro). I critici si soffermano sul fatto che le norme contenute nel disegno di legge aprono più problemi di quanti dicano di volerne risolvere. I sostenitori ritengono che esse sanciscano de iure qualcosa che già sussiste di fatto. Più in generale, tuttavia, la discussione ha riaperto un’antica querelle, lunga quanto la durata stessa dello Stato d’Israele, sulla questione – e sulle ragioni, storiche e politiche – della mancanza di una Costituzione. Come è risaputo, Israele ha un sistema di Leggi fondamentali, un corpo normativo, formatosi nel corso del tempo, che per diversi giuristi compone un diritto costituzionale ma, per l’appunto, in assenza di una Costituzione. Quanto meno se con essa si intende una Carta unitaria, redatta, discussa e licenziata in un unico tempo, salvo le integrazioni e le modificazioni che possono comunque sopravvenire. Per una parte dei lettori, tale questione può risultare del tutto secondaria se non insignificante. La stessa Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, infatti, rinvia, nella sua lettera, all’ebraicità come al timbro denotativo della comunità nazionale israeliana. Non di meno la bilancia, per così dire, con il richiamo all’inclusività della forma democratica, in quanto carattere imprescindibile del nuovo Stato. Al riguardo, tra le altre cose contenutevi: «Lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite». Ma le questioni non finiscono qui. Poiché la nozione di democrazia, per tradursi in atti concreti e in fatti tangibili, richiede necessariamente il riconoscimento del pluralismo, senza il quale, altrimenti, rischia di subentrare una sorta di gerarchia dei ruoli, delle persone e quindi delle organizzazioni sociali, culturali e civili, le quali, nella loro varietà, sono e rimangono comunque parte di un moderno Stato-nazionale. Che è tale proprio perché quell’unione di individui che chiamiamo per l’appunto «nazione» dovrebbe avere come vincolo prioritario quello che alcuni politologi chiamano patriottismo costituzionale. Dove si è parte di una comunità politica non in ragione delle proprie pregresse appartenenze (lingua, religione, cultura ma anche, più ambiguamente, “etnia”, famiglia e così via) ma in virtù di un comune legame di reciprocità che si fonda sullo stare insieme, sul sentirsi legati reciprocamente, sul ritenersi uguali proprio perché portatori di una propria specificità irriducibile ma non per questo conflittuale. L’ebraismo, nel caso d’Israele, è il tessuto connettivo indispensabile sul piano identitario. Ma, proprio perché si tratta di un prodotto storico, è esso stesso non solo un valore di principio ma il risultato dell’ibridazione tra storie e culture diverse. Quindi, qualcosa in movimento, in evoluzione, in trasformazione, se esso è inteso come cornice di riferimento. L’uguaglianza poco o nulla ha a che fare con un qualche obbligo di uniformità. Se fosse altrimenti, fermo restando che all’atto concreto sarebbe comunque impossibile mantenere questa presunta omologabilità tra individui e gruppi per loro natura distinti )a parte quanto avvenuto durante gli esperimenti totalitari), la democrazia cesserebbe di esistere. Al suo posto verrebbe cristallizzato il principio per cui si è parte della comunità politica nella misura in cui si è espressione di un gruppo ad esso preesistente, accedendo alle leggi, fruendo dei beni collettivi, partecipando all’attività pubblica solo nella misura in cui quella precedente appartenenza lo concede. La cittadinanza, nella sua concezione liberale, nel qual caso, risulterebbe messa in discussione, prima ancora sul piano formale che sostanziale, perdendo quella natura inclusiva senza la quale ritornano inesorabilmente le divisioni tra sovrani, vassalli e sudditi. Detto questo, le polemiche più “spicciole”, per tornare alla cronaca di questi giorni, si sono concentrate sui calcoli d’interesse del Primo ministro, reali o presunti che siano. Il quale, secondo i suoi critici, si sarebbe mosso tanto repentinamente quanto intempestivamente (ma quando mai, in Medio Oriente, i tempi sono quelli “giusti”?) e inopportunamente per capitalizzare sul piano politico il risultato di una legge comunque destinata a dividere il fronte degli interlocutori. Poiché dietro tanta affettazione ci sarebbe non un progetto lungimirante bensì un calcolo di breve periodo, legato alla volontà di ottenere la nomina alle primarie come candidato per le prossime elezioni legislative, soprattutto dinanzi alle forti tensioni politiche che stanno accompagnando l’attuale, composita maggioranza politica. Così come, le tensioni e le frizioni tra poteri – peraltro le une e gli altri tipici di un sistema democratico, dove non esiste un unico centro di decisione ma una pluralità di soggetti concorrenti -, tra i quali annoverare i contrasti che da sempre, in Israele, animano il rapporto tra esecutivi e Corte suprema. Dopo di che, al di là delle contingenze, nel merito della legge – comunque vada a finire la sua discussione in sede istituzionale, essendo anche plausibile che non se ne faccia nulla -, rimane inespressa, sullo sfondo di questa riflessione, la questione imprescindibile dell’identità ebraica e del suo rapporto con la forma contemporanea dello Stato-nazionale. Alla quale il sionismo politico ha dato una sua risposta, in anni diversi, tuttavia, da quelli che stiamo vivendo. Se l’identità intesa in senso “etnico” enfatizza gli elementi particolaristici, quelli che più e meglio servono a delimitare un gruppo dai confini culturali tendenzialmente circoscritti, lo Stato d’Israele, o per meglio dire gli ebrei israeliani, gruppo assai composito, stratificato e incredibilmente differenziato, sempre di più saranno destinati a condizionare gli equilibri delle comunità ebraiche diasporiche. Si tratta di un fatto numerico, ovvero demografico, che si ripercuote sulle dinamiche collettive. Al popolo d’Israele, quindi, parrebbe destinato a sostituirsi, almeno in parte, il popolo israeliano. Che non è una “etnia”, ammesso e non concesso che questa parola abbia un senso e sia appropriata per ciò che andiamo descrivendo, bensì un vivace coacervo di culture, per buona parte ebraiche, ma non solo, accomunate dal rapporto di lealtà con un centro politico, lo Stato per l’appunto. Nulla di meno, niente di più. Non è poco; semmai è molto. Questa società avanza la sua domanda d’identità. È un interrogativo che prescinde dalle maggioranze politiche del momento ed è destinata a ripetersi sempre più spesso. Una domanda urgente, che è tanto più forte, e non priva di insidie, dal momento che Israele è uno dei paesi a più alto tasso di globalizzazione, ovvero tra quelli meglio inseriti nelle dinamiche di flusso che caratterizzano la dimensione “liquida” delle economie e delle società planetarie al giorno d’oggi. Poiché tutta la sua esperienza storica, nonché il retaggio comune all’ebraismo, si basa sulla mobilità, sulla mobilitazione e sull’innovazione. Mobilità diasporica, ricomposta in una comunità nazionale che, tuttavia, presenta un persistente tasso di trasformazione interna e di comunicazione con l’esterno, cioè con il sistema-mondo; mobilitazione, per l’indiscutibile capacità di attivare gli individui e le risorse, finalizzandoli verso progetti comuni, anche in presenza di grandi ostacoli; innovazione, che è il risultato di una lunghissima confidenza con la cultura e la sua socializzazione. Come si risponde, quindi, alla dialettica tra necessità di identificare dei confini, sia pure mobili, tra sé e gli “altri”, senza cadere nella trappola della cristallizzazione dell’immagine propria, e il divellamento che i percorsi di globalizzazione implicano, è la vera sfida capitale su cui si gioca il futuro di Israele. E non solo, guardando un poco in casa nostra.

Claudio Vercelli

(30 novembre 2014)