…estremisti
La disoccupazione nell’Unione Europea è all’11% e in Israele è al 6%; il tasso annuale di crescita economica dell’UE è all’1% mentre in Israele le stime variano fra il 2,5% e il 3%. Apparentemente, dunque, grande successo a Gerusalemme, e tutto questo nonostante la guerra di Gaza e il temporaneo crollo estivo del turismo, e la deplorevole sperequazione dei redditi. Eppure il governo Netanytahu si dimette e in Israele si ritorna al voto anticipato. Sulle 19 elezioni parlamentari svoltesi fino ad oggi in Israele, solamente sette volte la Knesset è riuscita a completare il suo mandato quadriennale. L’ultima volta questo è avvenuto 30 anni fa, nel 1984, con l’elezione del governo della coabitazione Shamir-Peres. Poi per ben otto volte consecutive il parlamento è stato sciolto in anticipo, e questo avviene ora nuovamente dopo solo un anno e nove mesi dalle ultime elezioni. La ragione vera della fine dell’attuale coalizione è l’incapcità del primo ministro di varare un bilancio dello stato basato sul consenso della maggioranza. Ciò era già avvenuto due anni fa con una coalizione governativa diversa, e dimostra il fallimento seriale di Netanyahu nell’esercizio del potere che non consiste solo nella direzione ma anche nella mediazione. La parola d’ordine delle nuove elezioni – costosissima operazione che getta il paese nel caos per almeno sei mesi – sarà l’estremismo. Estremista per definizione è colui a un lato del quale ci sono tutti, mentre dall’altro lato non c’è nessuno. La prova? I diversi testi proposti per la la Legge sulla Nazione (Hok Haleom), uno più estremo dell’altro, quando invece una soluzione semplicissima e impeccabile sarebbe quella di promuovere a legge fondamentale dello stato quel documento impareggiabile per intelligenza e equilibrio che è la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele. Nel gioco dei partiti è dunque iniziato il salto della cavallina in cui quasi tutti vogliono conseguire la posizione dell’estremo scavalcando il rivale. Dunque Bibi con il Likud si posiziona a destra di Israel Beitenu di Liberman; Bennett con Habayt Hayehudi si pone a destra di Bibi; Uri Ariel, il taciturno e arrogante ministro dell’edilizia, con la sua fazione Hayihud Haleumi minaccia la scissione da Bennett, ovviamente da destra. Il nuovo astro nascente Cahloun si appresta a concorrere con una piattaforma economico-sociale, ma sulle questioni della grande politica non è meno destra di qualunque destra. Fra i partiti religiosi, i sefarditi di Shas competono con gli ashkenaziti di Yahadut Hatorah per lo stendardo dell’intransigenza dottrinaria, peraltro non aliena dalla competizione per maggiori finanziamenti per le proprie opere e nomine per i propri uomini (donne nessuna). Sul fronte opposto dei partiti arabi, la coalizione islamica di Ra’am-Tal vuole scavalcare il nazionalismo dell’ex-partito comunista Rakah, ed è a sua volta scavalcata agevolmente dal partito filo-palestinese Balad. Infine nell’arco del centro-centrosinistra, appare la cronica divisione fra cinque formazioni tutte fra il ristagno e la scomparsa: Kadima dai 28 seggi del 2009 passa a 0; Yesh ‘Atid di Yair Lapid e Hat’nuah di Tzipi Livni in caduta verticale; i laburisti guidati da Isak Herzog non riescono a decollare in alcun modo; Meretz mantiene le sue posizioni limitate. Se qualcuno avesse il coraggio di dire: “uniamoci, chiunque purché non Bibi”, una certa parte del pubblico seguirebbe. Ma la probabilità che qualcuno degli attuali leader di partito voglia rinunciare al proprio ego è minima. Nuove elezioni dunque, per poi arrivare a una nuova condizione di stallo nella primavera del 2015. La conclusione potrà apparire incredibile ma è cosí: le chiavi del sistema le ha in mano Avigdor Liberman. Vediamo che cosa deciderà di fare.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
(4 dicembre 2014)