Ghiur…

Oggi la conversione all’ebraismo (Ghiur) è un argomento di interesse generale, non solo in diaspora, basti pensare a quanto sta accadendo in Israele. Ci sono più convertiti ora che in qualunque altra epoca passata. Alcuni uomini o donne si convertono al giudaismo per diversi motivi. Trovo tuttavia che sia necessario più che mai ritornare a essere coerenti con la nostra tradizione e i suoi valori spirituali. Questa volta non parlerò di aspetti normativi legati alla Halachà o al Beth Din, ma vorrei concentrarmi sui valori spirituali. Mi sono spesso chiesto: che cosa ha di speciale l’ebraismo agli occhi di un estraneo, tanto da attirare le conversioni? La vita matrimoniale? Spesso nei i matrimoni misti il coniuge non ebreo (sia esso madre o padre) desidera educare i propri figli ebraicamente, ma, incoerentemente, senza accettare prima su se stesso l’ebraismo. Il rapporto speciale che esiste tra gli ebrei? Gli ebrei solitamente sono molto conflittuali fra di loro. Forse i proseliti sono attirati dalla sofferenza ebraica? La sofferenza come valore espiatorio per amore da parte del Cielo è un concetto ebraico fatto proprio dal cristianesimo in maniera più marcata rispetto alla tradizione dei nostri maestri. La promessa di un cambiamento personale? La vita di una persona che si avvicina all’ebraismo cambia radicalmente e diventa estremamente impegnativa e complessa, senza parlare delle difficoltà di inserimento nel gruppo ebraico. Forse è la smania di appartenere a un popolo piccolo, così ricco di identità? Ma spesso l’identità ebraica è così complessa e articolata che nemmeno gli stessi ebrei sono d’accordo su cosa essa sia. Forse il desiderio di condividere una passione struggente per la memoria? L’identità ebraica difficilmente può essere relegata all’aspetto della sola memoria. Forse un crollo esistenziale, una fuga dalla propria realtà? Spesso coloro che si convertono non risolvono i propri problemi esistenziali. Troppo spesso il proselita si accontenta della mera appartenenza alla comunità ebraica, trascurando gli aspetti spirituali della questione. Per quale motivo la tradizione ebraica rende le cose così difficili per una persona che desidera abbracciarla? Abbiamo paura dei nuovi arrivati? Niente affatto. Non è necessario diventare ebrei per essere giusti agli occhi di D-o, è pienamente sufficiente essere dei buoni Beneh Noach. Qui, come in altri ambiti, la tradizione ebraica segue il cammino biblico: nella Torah ci viene ordinato di amare il proselito, ma di non attirare gli altri alla conversione. In linea di principio, la tradizione ebraica si astiene dal fare proseliti. Ma quale deve essere allora il significato profondo della conversione, l’impegno spirituale del proselita? La risposta non può che essere di carattere religioso; non può che essere legata alla Torah e agli aspetti spirituali dello stile di vita ebraico. Il proselita deve prendere su di sé un impegno spirituale che nessuno gli ha chiesto di scegliere, deve essere sincero e non avere secondi fini; deve accettare come rivelata la totalità della Torah Scritta e Orale codificata nel Tanach e nel Talmud e i suoi commenti fino ad oggi; osservare i principi immutabili della Halachà; assumersi un impegno assoluto, privo di giustificazione razionale: nella propria vita personale egli deve accettare il principio di osservare le mitzvot, tra le quali distinguiamo i chuqqim, che sono razionalmente inintelligibili, e i mishpatim, leggi sociali, anch’esse, talvolta, difficili da recepire razionalmente; osservare tali regole con fede, amore e puntiglio, nonostante altri ebrei possano trovare tutto questo sciocco e ridicolo. Tutto questo richiede lo stesso tipo di risposta del “naasseh venishmà” (“Faremo e Ascolteremo”). Tale è il genere di impegno di fede che il proselita deve mettere in atto. Il Ghiur ha significato per D-o, non per noi stessi. L’ebraismo è, dopo tutto (con buona pace di alcuni), una religione, non tanto mera appartenenza a una comunità.

Paolo Sciunnach, insegnante

(8 dicembre 2014)