All’ombra della cupola
Le recentissime vicende giudiziarie emerse all’attenzione pubblica con l’inchiesta in corso sulla cosiddetta «mafia capitale», al di là dello specifico penale che è e sarà oggetto dell’azione degli inquirenti, hanno portato alla luce un underground di relazioni e legami, di lungo periodo, che rimandano alla storia di una parte dell’eversione romana di matrice neofascista così come alla traiettoria di singole persone transitate dalla militanza nella destra radicale a ruoli istituzionali. Non è questa la sede per formulare giudizi di naturale tribunalizia. Non solo per l’obbligo di astenersi dall’emettere condanne anticipatorie, così come per un’obbligata cautela nei confronti di ciò che diventa, passo dopo passo, di dominio pubblico ma fatica ancora e prendere una forma definitiva, bensì per la necessità, ancora una volta, di capire prima ancora di giudicare. La più grande banalità che si potrebbe pronunciare, al riguardo, osservando la collusione tra esponenti del variegato mondo di una certa destra capitolina e alcuni elementi variamente riconducibili o collegati alla sinistra, è che l’una e l’altra, la resa dei conti, da sempre pari sono. Banalità perché non è questo il fulcro della questione. A meno che non si intenda ripiegare su uno dei mali dei tempi presenti, la fiera del luogocomunismo che, fingendo di volere denunciare la deriva in atto, in realtà la rafforza. Bassi tassi di partecipazione elettorale, autoesclusione dai processi decisionali, disamoramento qualunquistico, ribellismo senza sbocchi, aggressività e marginalità sono musica per le orecchie di chi ha bisogno del disincanto pubblico per meglio gestirsi i propri interessi, all’ombra dell’assenza della collettività, relegata sullo sfondo a compiangersi. Va da sé, infatti, che se la politica diventa essenzialmente una prassi di gestione verticistica di denaro pubblico, lasciandosi alle spalle tutto il resto, a partire dalla partecipazione, dalla progettualità, dall’identificazione e dal conflitto governato (quello in cui si riconosce l’esistenza di interessi contrapposti ma li si media attraverso il ricorso alle regole e non ai solo rapporti di forza), le peggiori compromissioni siano immediatamente dietro l’angolo. E non certo per la sola ‘cattiva natura’ dei collusi quanto, piuttosto, per il drastico crollo del valore stesso della politica, che si riduce a scambio di valori monetari e materiali, escludendo aprioristicamente la collettività, che finge invece di continuare a rappresentare, da qualsiasi reale beneficio. Un esempio specchiato di tale stato delle cose è, tra le altre, la vicenda a sé della speculazione sulla gestione dei campi nomadi, dove i loro residenti sono additati come i destinatari, moralmente abusivi e socialmente ingiustificati, di copiosi servizi e rilevanti risorse, quando invece gli uni e le altre sarebbero finiti nelle tasche di disinvolti imprenditori, speculatori della miseria altrui. Se la politica non è anche appartenenza, riconoscimento, inclusione, così come conflitto negoziato, la fiera delle vacche sta quindi immediatamente dietro l’angolo. Si tratta dell’apoteosi di una certa idea del «mercato», una sorta di immaginario luogo dove tutto si autoregolerebbe. Una favola, un costrutto mentale magico-infantile, che gli affaristi sanno tuttavia volgere a proprio favore, sostituendosi ai corpi intermedi, agli organismi collettivi di rappresentanza, nonché piegando al proprio tornaconto le decisioni pubbliche. Dopo di che, premesso tale riscontro, rimane il fatto che il riemergere di una rete di malaffare diffuso, a tratti quasi consustanziale e trasversale al modo in cui alcune amministrazione pubbliche hanno operato in questi ultimi anni, segnali qualcosa di più di una patologia occasionale. La qual cosa apre un orizzonte gigantesco di riflessioni. La prima di esse demanda a quell’autoinganno in virtù del quale la cosiddetta «morte delle ideologie» (che, nel caso delle politiche di potenza, o della lotta per l’egemonia culturale, in realtà non sono mai venute meno, semmai cambiando pelle) avrebbe celebrato la fine delle contrapposizioni frontali e, grazie a ciò, l’avviarsi di un periodo di prosperità basato sulla conciliazione degli opposti. Nei fatti, nulla di tutto ciò è accaduto. Piuttosto, se rimaniamo ancorati al perimetro delle nostre città, a partire da Roma medesima, sta ridisegnando i confini e le fisionomie collettive, consegnando le periferie allo sbando, abbandonate a sé da un ceto politico completamente autoreferenziato, che ha contrabbandato la funzione di rappresentanza collettiva con una completa libertà d’azione, mascherata sotto le false vesti di un esercizio neutro, tecnicistico, fintamente ‘obiettivo’. Non è una questione solo del nostro Paese, investendo semmai il problema, in sé globale, della perdita di sovranità degli Stati nazionali e, in immediata conseguenza, di ruolo delle élite decisionali. Il populismo copre questo vuoto a modo suo e, a giudicare da come stanno andando le cose, parrebbe destinato ad avere ancora molto spazio dinanzi a sé. La seconda riflessione, più diretta alle cose di cui stiamo parlando, rinvia alla persistenza di legami di gruppo che da politici, se mai lo sono stati integralmente un tempo che fu, si sono ossidati, e non da adesso, in vincoli criminali. La martellante ricorrenza di alcuni nomi nell’inchiesta romana, tutti nelle vesti di veri e propri soggetti di riferimento della malversazione, una parte dei quali a vario titolo riconducibili, non importa quanto direttamente, all’arcipelago della ‘vecchia’ destra radicale capitolina, che negli anni Settanta aveva secessionato dal Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, in cui pure era in parte cresciuta, rivela come il ‘romanzo criminale’ abbia il suo nucleo in una sorta di continuità tra agire politico, ovvero il richiamarsi ad esso, e l’operare banditesco. Di fatto, tra questi due elementi sussisterebbe quasi una ferrea reciprocità. L’affarismo, da tale punto di vista, non costituirebbe quindi una deviazione ma l’essenza medesima del modo di concepire la politica come prevaricazione. Recuperando parte del bagaglio di famiglia – più che di un ipotetico ‘album’, come si sarebbe altrimenti detto un tempo – dove ai richiami solenni alle virtù della militanza ipernazionalista, ai cascami della lotta di piazza, ai residui dello scontro fisico contro l’opposta fazione si alternano, e poi si sostituiscono definitivamente, la vocazione alla corruttela, al ladrocinio, allo sfruttamento delle più svariate attività illegali, soprattutto all’assalto alle casse pubbliche come si faceva un tempo con le diligenze. Magari, ed è questa la ‘modernità’ intanto intervenuta, incrociando esponenti dell’altro ‘fronte’, nel frattempo prontamente resettatisi nelle vesti di esponenti di segmenti del mondo imprenditoriale, cooperativistico e così via. Segnatamente, gli anni della Russia di Eltsin, ad esempio, ci dicono cose significative di come quel Paese anticipò una diffusa tendenza, molto accentuata tra gli uomini di potere provenienti dall’ambiente politico sovietico, nel passare dalle stanze degli organismi di partito a quelle delle nuove società che si capitalizzavano privatizzando selvaggiamente i beni pubblici. Il cosiddetto «mondo di mezzo», per come si configura da ciò che le inchieste ci vanno delineando, sarebbe ciò e non (molto di) altro. Alla faccia di chi lo ha invece voluto celebrare, ancora in tempi relativamente recenti, come un piccolo universo di «esuli in patria», di sconfitti nella lotta ma non nelle ragioni, di antichi militanti e guerrieri ai quali riconoscere, quanto meno, l’onore delle armi. Certa pubblicistica di questi ultimi vent’anni, falsamente comprensiva e intimamente piagnona (dedita a parlare di ‘vittime dimenticate’ a casua del paradigma antifascista), ci ha costruito sopra un mausoleo di interpretazioni tendenziose, ispirate ad una sorta di politica-pop, dove il giustificazionismo sta immediatamente dietro l’angolo. Esagitati sì, ma per le loro (buone) ragioni, si è lasciato intendere. Emendando, in tale modo, la natura della violenza dal tratto totalitario di cui erano (e rimangono) portatori, nel lavacro collettivo delle cosiddette ‘buone intenzioni’. Ed invece il precedente insano c’è tutto e sta nel regime a partito unico di mussoliniana memoria, dove ideologia asfissiante, ad uso della collettività, rigida organizzazione sociale, per tenere imbrigliata una società intera e affari di gruppo, nobilitati sotto le false spoglie della ‘modernizzazione’, furono tra gli ingredienti del tracollo progressivo del Paese. Il neofascismo ha recuperato, a modo suo, quell’eredità, per poi rigenerarla a proprio favore, anche dopo la sconfitta storica del 1945. Ognuno l’ha poi spesa come meglio gli risultava possibile, nel suo ambito, gruppo, ambiente di azione. Non esiste nessuna epopea, ancorché criminale, nella destra radicale dell’Urbe. Non c’è nessuna attenuante, tanto più laddove le compromissioni con le mafie, che anche in quest’ultima inchiesta parrebbero di nuovo emergere, ribadirebbero la prossimità non solo di interessi ma anche di modi di intendere il controllo della cosa pubblica, come della vita sociale, nei termini della sola, belluina, ferina prevaricazione. Se non si capisce questo, se si continua a ripetere pappagallescamente che tanto “tutti uguali sono”, si fa un grande regalo a chi ha bisogno che il torbido resti tale, poiché è in quelle acque che pesca quello che più gli aggrada, magari rivestendo l’atto criminale di un involucro che lo fa assomigliare, così nobilitandolo, ad un film d’azione o a un fumetto di genere. La pellicola che si srotola sotto i nostri occhi ci dice invece ben altro. Il fascismo eterno, in un Paese che non è stato capace di fare i conti con la stagione stragista, sta senz’altro in una forma mentale ossessiva, paranoide, violenta. Ma si incontra, e si vivifica sempre, con la predatorietà del furto, della sottrazione mafiosa di legalità, della distruzione del tessuto sociale, sostituito da aggregazioni di interessi che ci riportano ai clan, alle piccole tribù, alle bande di quartiere, ai sodalizi mercenari, alle cosiddette ‘fedeltà di sangue’, alla falsa legge del più forte. La Repubblica italiana è, o dovrebbe essere, l’esatto opposto di tutto ciò. Il diritto non è un favore del signorotto nei confronti del suddito. È una conquista collettiva, che costruisce, tessendo e ritessendo quotidianamente, una società dinamica, al posto delle ‘piccole patrie’ identitarie così come delle ‘grandi patrie’ nazionaliste. L’antifascismo democratico, pur con tutti i limiti delle sue tante manifestazioni, lo aveva capito. Oggi ce lo stiamo forse dimenticando, tra oblii, autoassoluzioni e revisionismi rancidi. Anche questo la vicenda affaristica, scoperchiata dall’inchiesta romana, ci consegna. Poiché o torniamo a ‘buttarla in politica’ oppure saremo sempre più spesso vittime di quell’asfissiante processo collettivo che lega inesorabilmente espropriazione a impotenza e che sta diventando il cupo segno di questi anni troppo lunghi. Quasi che il tunnel di ciò che chiamiamo «crisi» non possa avere termine se non in una sorta di default sociale e morale dei tanti, dei più.
Claudio Vercelli
(14 dicembre 2014)