Il cono d’ombra
Esiste un meccanismo ad incastro che, nel suo operare, rischia di rivelarsi, in prospettiva, come una minaccia infernale. In Francia, ad esempio, ne parlano già da tempo con una certa preoccupazione, complice anche il fatto che il vento della politica sembra soffiare a favore del Front National di Marine Le Pen. La quale, proprio per questo, è bene attenta a giocarsi le sue carte, evitando di cadere nelle trappole che invece su suo padre sembrano ancora esercitare una sorta di attrazione fatale. In Ungheria, invece, è già purtroppo un dato di fatto. Ma la questione non si riduce ad alcuni paesi o alle singole formazioni politiche, di maggiore o minore successo, trattandosi semmai di una tendenza “culturale” che va diffondendosi, con un discreto successo, un po’ ovunque. Si tratta della saldatura tra rossi e bruni, ossia del rapporto incestuoso tra quanti provengono, a vario titolo, da alcuni segmenti della sinistra classista, quella cioè che un tempo identificava esclusivamente nella «divisione tra classi», e nella lotta tra di esse, il motore della storia, e la destra razzista, la quale – invece – prima nel discorso nazionalista e poi sul tema questione della centralità delle «razze» ha costruito buona parte delle sue fortune. Non è la riedizione della discutibile teoria della coincidenza tra opposti. Poiché sul piano dei valori, la distinzione tra destre e sinistre, in Europa, permane. Piuttosto, ed è questo il vero cono d’ombra sul quale soffermarsi, è un ambiguo percorso di scivolamento di certi spezzoni dell’una e dell’altra parte, ancorché al momento minoritari, in una deriva che li sta progressivamente portando verso un comune approdo. In altre parole: se il comunismo è irriproponibile come teoria, e ancora meno come prassi, sconfitto dalle «dure repliche della storia», e se il fascismo, in quanto regime, è non meno anacronistico e quindi consegnato al passato, non la stessa cosa può essere detta di quel che dell’uno e dell’altro resta, trattandosi di un universo di pensieri ma anche di persone destinate a trovare un terreno condiviso sul piano del risentimento. A matrice razzista. Ci sono due piani di interconnessione da considerare: il primo è quello populista, che scioglie qualsiasi distinzione tra persone, come anche il valore storico della diversità umana, per miscelare le collettività nel “gentismo”, ovvero l’esaltazione acritica delle presunte qualità del «popolo» (per meglio dire della «gente»), una sorta di istanza metastorica, fuori dal tempo, nella quale riposerebbero le virtù che invece le élite starebbero tradendo. Una parte della retorica antieuropeista suona, a volume crescente, questa grancassa. L’appello costante alla collettività, il dire di richiamarsi ad essa, rappresentandone e tutelandone gli interessi, è peraltro ciò che differenzia la destra radicale di mobilitazione, quella nata e cresciuta con l’affermazione delle moderne società di massa, dalla destra liberale tradizionale, quest’ultima attenta alle prerogative degli individui. La sua evoluzione segue di pari passi l’affermarsi sulla scena politica delle organizzazioni del movimento dei lavoratori, così come la diffusione della democrazia rappresentativa e sociale. Delle prime ne contrasta, tallonandole, lo sforzo di rappresentanza; della seconda cerca di utilizzare tutte le opportunità che le sono offerte per piegare l’evoluzione dei regimi politici a proprio favore. In questo, la destra radicale si sente da sempre competitiva, e quindi alternativa, rispetto all’associazionismo politico, sindacale e culturale della sinistra. Il populismo recupera questo spazio, lo fa proprio, tuttavia trasformandolo e manipolandolo. Il secondo piano di interconnessione è quello della lotta contro la pervasività del modello economico e culturale del “mercato”, uscito vincente in questi decenni. Ad esso, alla sua forza straripante, all’attribuirgli una potenza che si fonda sull’omologazione (dei bisogni, dei gusti, delle aspettative, dei comportamenti), viene contrapposto il discorso sull’“identità”, intesa come il perimetro invalicabile al quale un individuo, e il gruppo del quale dichiara di fare parte (o al quale è ascritto), dovrebbero costantemente richiamarsi. Per evitare di essere letteralmente ingoiati nell’indistinzione che i mercati genererebbero. Non c’è contraddittorietà tra l’appello populista (“siamo tutti parte di un’unico organismo collettivo”, che si chiami nazione, popolo o, per l’appunto, gente), dove parrebbe predominare la dimensione universalista, e il rimando al particolarismo che gli atteggiamenti identitari portano sempre con sé. In entrambi i casi, infatti, ci si rifà ad una immaginaria comunità, fatta di persone omologhe, identiche, cioè fatte con lo stesso stampo e quindi dotate di una sorta di “comune sentire”. La fortuna del populismo, oggi, si incrocia con il ritorno dei discorsi politici etno-nazionalisti. (L’Ungheria, anzi, la «nazione magiara», come di sé parla, ne è uno specchio inquietante.) I quali vengono sempre più spesso ibridati con l’avversione per gli effetti della globalizzazione, presentata come la pietra tombale delle sovranità nazionali. Le trasformazioni estremamente problematiche prodotte dall’economia internazionale in Europa vengono vissute da ampi settori della popolazione come il prodotto di processi di espropriazione di diritti e di risorse. Contrapporsi ad esse diventa così, nell’immaginazione di alcuni, il nuovo orizzonte dell’ “antimperialismo”. Un termine, quest’ultimo, che nasce cento e più anni fa nell’ambito della sinistra, laddove a quel tempo denotava le spregiudicate condotte di espansione coloniale praticate da alcune economie nazionali e dalle classi dirigenti di certi Stati, all’interno di una ferrea logica di politica di potenza che implicava speso il ricorso alle armi e alla sopraffazione. Oggi, invece, l’imperialismo è – o sarebbe – quello esercitato dai mercati (e mercanti) internazionali, globalizzati, senza più volto e privi di appartenenza nazionali, unificati dall’unico interesse di depredare i popoli dei loro beni. I populisti propongono a questi ultimi la tutela dei loro interessi nel nome di un recupero della sovranità nazionale, monetaria e finanziaria che veste i panni della “lotta nazionalpopolare” contro lo spettro della “grande finanza”. Quanto dentro questo discorso sia funzionale l’avversione per il «sionismo internazionale», il nome nuovo che è dato da certuni all’ebraismo, sono i tanti piccoli segni del dire populista che ce lo lasciano intendere. Laddove non si parla più di razze ma di popoli, recuperando tuttavia gli schemi mentali e simbolici che sono già stati grande parte del razzismo novecentesco. Si tratta ancora, in tutta evidenza, di un movimento carsico, che si adatta alla necessità di non essere identificato da subito per quello che in realtà è, ovvero un nuovo pregiudizio antigiudaico. Poiché se questa cautela non si dà più si hanno infatti fenomeni eclatanti come quelli del “comico” Dieudonné. Che non è un delirante solipsista ma la punta emersa di un iceberg di rabbie, paure e rancori. E al quale non basta mettere la sordina per evitare che mieta il suo seguito. In tutto ciò entrano in gioco sia gli effetti dell’immigrazione in Europa, soprattutto di molti cittadini di origine musulmana, che il declassamento di una parte cospicua del ceto medio continentale. Sta di fatto che la lotta contro un nemico senza volto, la «finanza globale», al quale ascrivere fattezze e lineamenti decifrabili, possibilmente di carattere “etno-razziale”, sta diventando un terreno politico produttivo per quanti intendano raccogliere un facile consenso. Il quale, ed è l’aspetto di saldatura di cui si diceva, costituisce un punto di raccordo tra soggetti in origine politicamente molto diversi, se non contrapposti. Quanto meno in età postbellica, poiché se si vanno invece ad osservare nello specifico quali furono le traiettorie dei movimenti fascisti antecedenti alla tragedia del 1939-45, si scoprirà – allora – come l’antisemitismo sia stato parte fondamentale di un repertorio di paure la cui manipolazione politica ha senz’altro fatto gioco tra chi era già abituato a masticare discorsi razzisti, propendendo quindi da subito per le destre radicali di quei tempi, ma anche in alcuni settori della sinistra, più o meno estrema, che spesso nell’autoritarismo camuffato da collettivismo e dirigismo, hanno trovato storicamente le loro radici culturali più salde e le motivazioni maggiormente persistenti.
Claudio Vercelli
(21 dicembre 2014)