Sapori – Il grande ritorno del bialy
Tra le varie specie in via d’estinzione degli anni 2010, oltre ai panda, le videocassette e i pantaloni a zampa (anche se quelli ogni tanto hanno ancora i loro momenti), forse non molti sanno che ci sono i bialy. E probabilmente ancora meno sanno vagamente cosa siano. Il bialy, che viene e prende il nome da Bialystok in Polonia, è “un pane perduto di un tempo perduto”. Così lo definisce David Zablocki, proprietario di Kossar’s, il tempio del bialy nel Lower East Side a Manhattan nonché uno dei pochi posti al mondo dove assaggiarlo. Si tratta del parente meno famoso del bagel, sempre gommoso e sempre tipicamente ebraico, ma attenzione: “Anche nel suo ambiente, nella sua cultura, sta diventando sempre meno conosciuto. Molti che fanno un bialy oggi usano gli stessi ingredienti e la stessa cucina dei bagel, ma nonostante bialy e bagel siano cugini, non sono gemelli; non possono sopravvivere con gli stessi utensili e ingredienti”, aveva spiegato Zablocki in un’intervista al Tablet Magazine. Salta subito agli occhi che i bialy non hanno il buco, ma una depressione i cui riempimenti più classici sono cipolle e semi di papavero. Inoltre, tanto per cominciare, sono solo cotti in forno e non prima bolliti come i bagel, e poi gli ingredienti non coincidono. “Un bialy non ha grassi né zucchero e non è fritto: è un pane piuttosto sano, ideato per essere mangiato fresco e quotidianamente, mentre il bagel è pieno di calorie”, continuava Zablocki. Che ha veramente preso a cuore questa missione, trasformandola nella sua vita quando ha recentemente rilevato Kossar’s, sull’orlo del fallimento, insieme a due partner. In realtà erano partiti dall’idea di salvare l’autenticità secondo loro perduta del bagel, “ma era quasi come se l’universo ci dicesse che dobbiamo salvare prima il bialy”, ha raccontato. Ma a questo punto per conoscerne la difficile storia si rende necessario un flashback. Polonia, 1800. Bialystok è un’allegra cittadina popolata al 70% da ebrei, che sfornano centinaia di bialy al giorno. Verso la fine del secolo ha inizio una migrazione diretta negli Stati Uniti, dove nel 1936 Kossar’s viene aperto dai signori – chi l’avrebbe mai detto – Kossar. Pochissimi anni dopo in madrepatria iniziano la Seconda Guerra Mondiale e dunque i problemi, e il vero incubo nel 1941, quando la città cade nelle mani dei nazisti. “La prima cosa che fecero fu ammassare circa duemila ebrei nella sinagoga e bruciarla”, spiega Rebecca A. Kobrin, studiosa di storia ebraica americana alla Columbia University e autrice del volume Jewish Bialystok and Its Diaspora. “Da una popolazione totale di 250mila ebrei prima dell’invasione, ne rimasero circa 140”. E così insieme a quella tragica degli ebrei, si verifica la triste scomparsa anche dei bialy. Kobrin, che è andata di persona a Bialystok, racconta che oggi gli abitanti sanno a malapena cosa sia e ironicamente affollano un negozio chiamato New York Bagels. Nel frattempo il tipico pane sopravvive nel ‘900 nelle panetterie del Lower East Side e dintorni, ma anche lì negli anni la concorrenza si assopisce, lasciando a Kossar’s praticamente il monopolio. Intanto però i bagel sono diventati così onnipresenti che i poveri bialy sono caduti un po’ nel dimenticatoio. Ma Zablocki si attrezza per la loro rinascita, forte dei ricordi della sua infanzia al profumo di bialy negli anni ‘70. Per lui salvare il bialy è più che mantenere in vita una buona alternativa al bagel – si tratta si salvare un legame con il passato. David, che è sì di origine polacca, nonostante il nome e la passione in realtà non è ebreo come ci si immaginerebbe. Però definisce se stesso un shabbes goy. Ha studiato alla New England Culinary Institute nel Vermont e dopo varie sfide oggi accetta quella di farsi insieme ai suoi partner “rappresentante del marchio di Kossar’s”, riportando la qualità agli stessi livelli di quando c’erano i Kossar ma rimodernando e portando il negozio nel nuovo millennio. “Posso solo sperare che saremo un’ispirazione, e che i bialy tornino ad essere un pane quotidiano in questo paese o dovunque nel mondo”.
Francesca Matalon
(6 gennaio 2015)