Quattro vite spezzate prima di Shabbat
“Scendo a comprare le challot”, “Non ci sono più omogeneizzati, corro al super perché è quasi Shabbat”, “Stasera si cena da Ilan, devo prendere del vino prima di passare da lui”. Affrettarsi per l’ultima spesa, carichi di buste e pacchetti è tipico del venerdì. Poche ore prime dello Shabbat ci si ricorda dell’incombenza dimenticata e dell’acquisto della merendina senza la quale il tuo intemperante figlioletto di tre anni ti farà impazzire. Una corsa alle provviste come se il giorno di riposo durasse una settimana intera.
Questi potrebbero essere stati i pensieri sparsi delle venti persone (tra cui un bambino di tre anni ed una di pochi mesi) che all’una di venerdì 9 gennaio, poche ore prima di Shabbat, hanno varcato la porta di Hypercacher, uno dei supermercati di cibo kasher a Porte de Vincennes, Parigi. Gli ultimi clienti entrano prima che il delirio abbia inizio: pochi minuti dopo Amedy Coulibaly, che il giorno prima aveva ucciso una vigliessa, oltrepasserà la soglia, prenderà una quindicina di ostaggi e strapperà la vita a quattro uomini; Yohav Hattab, 21 anni, Philippe Braham, di 45, Francois-Michel Saada, 64 anni e Yohan Cohen, 20 anni.
I primi tre vengono uccisi immediatamente, il quarto giovane sarà invece protagonista di una eroica tragedia nella tragedia: Yohan, che un anno fa lavorara proprio come commesso dentro Hypercacher, si accorge che il terrorista ha abbandonato una delle tante armi che lo guarnivano, afferra la stessa e prova a sparargli. La pistola, come oramai tristemente noto a tutti, è però difettosa. Coulibaly lo fredda immediatamente dopo. I siti di informazione rivelano ancora di più: Yohan avrebbe tentato il disperato gesto perché Coulibaly minacciava di uccidere un bimbo di soli tre anni. Mentre è giunta la notizia che martedì le quattro vittime verranno sepolte a Gerualemme, al Monte degli Ulivi, si ricostruiscono quattro storie, quattro vite spezzate all’entrata di Shabbat, mentre si muovevano sicuri tra gli scaffali credendo di avere davanti un giorno di riposo, non certo il riposo eterno.
Yohav Hattab a Parigi viveva da solo, aveva iniziato a lavorare e suo padre, Benjamin Hattab, era il rabbino della Grande Sinagoga di Tunisi e il direttore della scuola ebraica. Per ricordarlo, gli amici hanno aperto una pagina Facebook dentro la quale piovono piccoli racconti, un mosaico di lacrime e parole: “Non ti conosco ma ti amo”, scrive qualcuno, “Mi ricordo la tua tefillà, il tuo amore per la religione. Eri il nostro giovanissimo rabbino” dice Rebecca. Sul proprio profilo online Yohav caricava foto di Gerusalemme abbracciato agli amici, aveva da poco fatto visita ai ragazzi del Taglit (il viaggio offerto ai giovani ebrei di tutto il mondo per scoprire Israele), scriveva lo Shema, bisticciava con un conoscente arabo sulla situazione mediorientale. Amava tantissimo la sua Tunisia, quando lasciava Parigi per tornare a casa scriveva: “Vado alla ricerca di un po’ di sole”. Un sole che venerdì si è oscurato.
Una delle immagini di Yohan Cohen che rimbalzano di sito in sito, lo vedono mentre prega: la testa coperta dal talled, il braccio stretto nei tefillin, i filatteri, una kippah bianca che sbuca. Indossa una maglietta a mezze maniche blu elettrico. Niente ricci ai lati del viso o palandrane nere. Yohan è un ebreo francese che abbiamo imparato a conoscere, che passeggia in gruppo per le strade di Tel Aviv durante Pesach e che prega, prega forte. Lo ricordano buono, con un sorriso stampato in viso, difficilmente nervoso o contrariato; qualche giorno fa aveva scritto fiero come molti suoi connazionali “Je suis Charlie”. Lo piange Sharon, la sua ragazza. Stavano insieme da due anni e c’è chi dice che Yohan lavorasse proprio per raccogliere i soldi e sposarla: “Eri così sano, puro, perfetto. Non voglio realizzare di averti perso. Non so come vivrò senza di te, non so cosa farò, non so dove trovare la forza per sopravvivere senza averti al mio fianco”. Continua a pregare che sia un errore, un incubo, la sua Sharon, mentre su Facebook mette un’immagine nera con la scritta lapidaria in grigio “Je suis Yohan”.
Philippe Braham aveva poco più di quarant’anni, quattro figli e una tragedia alle spalle: il cognato Shai Ben David ha raccontato che il primo figlio avuto con la seconda moglie Valerie è morto tre anni fa; “Un dramma inspiegabile”. Philippe era ingegnere informatico e frequentava la sinagoga di Mountrouge. Ben David racconta poi: “Indossava sempre la sua kippah, era un vero sionista. Ogni volta mi diceva: se D-o vuole, faremo presto l’Aliah. Aveva sepolto in Israele i suoi genitori e il suo figlioletto”. Il figlio di Philippe, Rafael, 14 anni, è devastato: era in Israele quando ha appreso la notizia e non riesce a farsene una ragione. “Papà ed io andavamo sempre lì per fare la spesa. Potevo essere lì con lui”.
Il più anziano dei quattro, Francois Michelle Saada ha 64 anni ed è padre di due figli che vivono entrambi in Israele. Nella foto circolata solo poche ore fa, lo si vede mentre sorride con due piccoli occhi neri da uomo buono. “Lo scopo della sua vita era la sua famiglia, i suoi figli – dichiara un amico – Era un padre e un marito modello”. Gli ebrei francesi si sentono mutilati, strappati del loro, del nostro, giorno più bello, lo Shabbat. Durante l’intervista della giornalista del canale 10 della tv israeliana Oshrat Kotler con uno degli ostaggi miracolosamente vivi di Coulibaly, alla domanda “Cosa farete adesso”, l’uomo ha risposto: “C’est fini, on fait notre Alya” (è tutto finito, ci trasferiremo in Israele). “Perché?” chiede Kotler, “Perché vogliamo vivere”.
Rachel Silvera