esilio…

Nella Parashah di questa settimana incomincia la notte dell’esilio dei figli di Israele in Egitto. I Maestri del Talmud approfondirono l’idea che la Shechinah è in esilio con il popolo di Israele. Si trova insegnato infatti che dovunque Israele venga esiliato, la Shechinah era ed è con loro. Li esiliarono in Egitto e la Shechinah era con loro, come è scritto: “Non mi sono forse rivelato [nigleti] alla casa di tuo padre quando erano in Egitto?”. E quando ritorneranno, la Shechinah, ritornerà con loro, come è scritto: “Tornerà il Signore tuo D-o con i tuoi esiliati”, qui non è scritto “farà tornare”, ma “tornerà”. “Io sono il Signore tuo D-o che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi”: qui la parola otzeticha (“ti ho fatto uscire”), è scritta in modo che si può facilmente leggere utzeticha (“con te sono uscito”); io (D-o) e voi (Israele) siamo usciti insieme dall’Egitto. “Disse il Santo e Benedetto Egli Sia: colui che si dedica allo studio della Torah, è generoso con il prossimo e prega con la comunità, io lo considero come se mi avesse liberato, me stesso insieme ai miei figli, di mezzo alle nazioni del mondo”. “Vi ho fatto uscire dai pesi imposti su di voi dagli egiziani”: otzeti etchem (“vi ho fatto uscire”), viene anche letto come utzeti itchem (“con voi sono uscito”). L’esilio della Shechinah iniziò contemporaneamente a quello del popolo di Israele. Poi, con l’avvento dell’era messianica, la Presenza Divina tornerà con il popolo in Terra di Israele. Le doglie dell’avvento dell’era messianica riguardano anche le sofferenze che il popolo di Israele deve affrontare ancora oggi (e lo leggiamo su tutti i giornali) con una fede sempre più forte in D-o. Nel Talmud esiste il concetto delle sofferenze di colui che sta in alto. Ogni sofferenza affrontata dal popolo di Israele risulta quindi un modo per congiungersi a D-o, D-o soffre i patimenti del suo popolo. Nel Talmud Rabbi Aqiva insegna: È meglio ridurre la fiducia nelle sue opere possenti che ottundere la fiducia della sua misericordia. Quando l’uomo si trova nella sventura, si associa alla sofferenza di colui sta in alto. Così prega la comunità di Israele: “Signore del mondo, guarda se per te è bene che noi siamo nella sofferenza. Tu che hai scritto: “Con lui io sono nella sofferenza, e noi davvero lo siamo, è bene questo per te?”. Possiamo quindi trovare la soluzione alle sofferenze di oggi tramite la Teshuvah, il pentimento inteso come ritorno personale a D-o, anche attraverso la discussione personale con D-o (Hitbodedut), supportati dagli insegnamenti della Chassiduth: l’uomo ha come scopo quello di raccogliere, di rilevare le scintille divine disperse in questo mondo materiale, nel bene e nel male, al fine di trasformare il male in bene, affinché la Gloria di D-o riempia la totalità di questo mondo materiale, affinché ogni essere vivente veda la Presenza Divina. Quale dovrebbe essere, dunque, la risposta umana al male? La sola risposta ebraica possibile al male è fare il bene (“Sur MeRah VeAaseh Tov”). La nostra capacità di vincere il male deriva dal potere dell’amore verso il prossimo. D-o è presente in ogni buona azione, in ogni azione etica-morale che noi compiamo. La nostra risposta al male sta nel compimento delle Mitzvot verso il prossimo; e non ci basta il minuto di silenzio impersonale e solitario. Le nostre azioni sono il braccio divino sotto mentite spoglie: la Shechinah (la presenza divina) si manifesta nella Mitzvah, nell’azione. Nel pensiero ebraico, la redenzione del mondo inizia con gli sforzi umani per vincere il male, compiendo azioni sante (Mitzvot). “Chi è santo? Chi cambia il nemico in amico” (Avot Nathan 23).

Paolo Sciunnach, insegnante

(12 gennaio 2015)