Aliyah…

Ogni qualvolta che assistiamo impotenti a tragici avvenimenti come quelli di Parigi insorge il dilemma se trasferirsi in Israele lasciando il proprio paese di residenza o meno. Nonostante la progressiva e massiccia Aliyah di questi ultimi anni e che probabilmente aumenterà, nella maggior parte dei discorsi ufficiali dei rappresentanti della comunità ebraica francese ha prevalso la netta propensione a ribadire che il loro posto resta la Francia.
Ci saremmo aspettati, in questi momenti di disperazione, appelli ufficiali a fare l’Aliyah in massa. Così non è stato, e non credo che il motivo sia stato solo quello riconducibile alla cortesia diplomatica nei confronti degli alti rappresentanti dello Stato intervenuti nella grande Sinagoga di Parigi.
Il problema è più complesso e riguarda soprattutto il nostro modo di concepire Israele.
Con le dovute differenze, e i contesti storico – politici diversi, sembra di ritrovarci di fronte all’inquieta domanda che in molti abbiamo posto per anni ai nostri genitori scampati miracolosamente alle leggi razziali e alla Shoah: “Come avete fatto a rimanere qui e a tornare in quelle stesse case dove i nazifascisti vi braccavano e spesso con la complicità di quei coinquilini che la mattina andavano in luoghi di culto a professare la religione dell’amore?”. Nella maggior parte dei casi la risposta è stata: “Questa era la nostra casa dove siamo nati e cresciuti!”.
Se è vero che, fin dalla sua nascita, lo Stato di Israele ha concepito sé stesso come rifugio per tutti gli ebrei perseguitati dall’antisemitismo in tutto il mondo, riuscendo, quasi sempre, a offrire a ogni suo immigrante una vita sicura e dignitosa, è altrettanto vero che, troppo spesso, l’invocazione a fare l’Aliyah ha un retrogusto retorico ed emozionale. Un trasferimento in Israele compiuto solo per sfuggire all’antisemitismo, alla crisi economica, o ad altri motivi semiconfessabili, potrebbe rischiare di essere una scelta obbligata, priva di quella consapevolezza necessaria e unica ad evitare che Eretz Israel, terra di larghezza e profezia, si trasformi, viceversa, in un ghetto o in un’ultima spiaggia. Non a caso trasferirsi in Israele equivale a “salire”, “Aliyah”. E per affrontare una salita bisogna equipaggiarsi altrimenti alla prima bufera compaiono i ripensamenti e le nostalgie dell’Egitto.

Roberto Della Rocca, rabbino

(13 gennaio 2015)